Fès, Volubilis, Meknès e la “perla blu” Chefchaouen

Chefchaouen

Del mio primo viaggio in Marocco, il classico tour delle Città Imperiali, fatto nell’aprile di 41 anni fa insieme ai miei ai genitori, conservo solo tre ricordi: il fetore nauseabondo della conceria di Fès, lo spazio infinito e ventoso su cui sorgono le rovine della città romana di Volubilis ed un pranzo sotto una tenda ai bordi del deserto.

Tajine di pollo e verdure

Due i motivi per cui quel pranzo resta ben stampato nella mia memoria: lo svolazzo di un grosso coleottero verde smeraldo entrato nella tenda e finito dritto dritto nella pentola tajine contenente il nostro cous cous di pollo e verdure (ricordo ancora con orrore il suo zampettio frenetico nell’impasto ancora caldo). Secondo motivo, l’incomprensibile scelta di una signora del nostro gruppo di preferire un’ora di sole per abbronzarsi ai piedi di una palma al lauto pranzo sotto la tenda. Per una golosa come me è infatti inconcepibile rinunciare volutamente ad un pasto ricco di manicaretti, una scelta inopinabile che però ha risparmiato, alla signora amante della tintarella ed attenta alle calorie, la visione dello show acrobatico del coleottero nel tajine. Rendendomi conto che tre soli ricordi, per quanto vividi, non siano sufficienti a considerare chiuso il capitolo Marocco pur avendo visitato, qualche anno prima, Marrakech e le casbah del Sud in compagnia della mia amica Silvia, ho approfittato delle vacanze di Carnevale per un breve viaggio a Fès, Volubilis, Meknès e, soprattutto, alla città blu di Chefchaouen, da anni nei miei pensieri e tra i miei desideri di viaggio.

Raggiungo il mio affascinante Riad (letteralmente “giardino”), una tradizionale casa marocchina con portico, cortile e grande vasca centrale che sorge proprio alle porte del Suk. Dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco Fès è la più antica delle città imperiali del Marocco ed è composta da Fès el-Bali, il centro storico, Fès el-Jedid, la città imperiale dei Merinidi (dinastia berbera tribale che, per un breve periodo, impose il proprio predominio su tutto il Maghreb e su parte della Spagna islamica) e più a sud dai quartieri moderni costruiti all’epoca del Protettorato francese (1912-1956).

La conceria di Fès

Racchiusa dalle mura difensive la storica medina Fès el-Bai, è un mare di tetti da cui emergono minareti e cupole. Vi entro con la mia guida privata superando la Bab Boujeeloud, bella porta monumentale in stile moresco, principale via d’accesso alla Medina. Sono oltre 10mila i negozi i negozietti carichi di merce dell’immenso Suk, brulicante di gente. Ad ogni tipo di merce è riservata una strada, o parte di essa, mi colpiscono, in particolare le botteghe che vendono prodotti in rame e ottone, metalli che si prestano bene ad essere tagliati, battuti, lavorati a sbalzo, intarsiati e incisi. Dall’alto di una terrazza di un bar della piccola piazza di el-Seffarine ammiro i battitori intenti a lavorare utensili domestici e preziosi manufatti.

Mostro alla mia guida una foto trovata su internet che ritrae la famigerata conceria ripresa dall’alto e gli faccio capire nel mio inglese stentato che voglio scattare la medesima foto. Mi conduce quindi in un famoso negozio che vende pellame dalla cui scenografica terrazza si gode un panorama a 360 gradi sulla conceria, la stessa che avevo visitato 41 anni prima con i miei genitori. Fortunatamente il fetore è meno insistente, nonostante ciò ad alcuni turisti presenti sono stati offerti mazzetti di menta fresca da mettere sotto al naso per sopportare meglio i miasmi. Osservo e riprendo con la mia telecamera le innumerevoli vasche usate da secoli per impregnare, con una soluzione ottenuta dalla corteccia del melograno o della mimosa, le pelli di pecora, capra, mucca e cammello rese così lavorabili dopo la rimozione di peli e carne.

Fès, Medersa El-Attarine

Decine gli uomini impegnati in diverse mansioni: c’è chi risciacqua le pelli essiccate, chi le mette ad essiccare sulle terrazze della Medina, chi le colora utilizzando in parte pigmenti naturali ottenuti da piante e minerali in parte coloranti chimici. Non mi lascio irretire dal titolare del negozio che in tutti i modi cerca di vendermi qualcuno dei suoi prodotti, dai puff ai giubbotti passando per borse e zainetti e proseguo la mia visita nel cuore antico di Fès. E finalmente entriamo all’interno di un edificio (le moschee, ad eccezione di quella di Casablanca sono accessibili solo ai musulmani). E’ la Medersa El-Attarine, scuola islamica medioevale costruita nella seconda decade del 1300, una delle meraviglie dell’architettura moresca. Altrettanto spettacolare il Fondouk el-Nejjarine, uno dei più famosi edifici di Fès, un antico caravanserraglio che forniva cibo, alloggio e riposo ai commercianti di beni di lusso. I tre scenografici piani dell’edificio ospitano oggi il Museo del legno. Trovando invece chiuso per restauri il museo etnografico dell’artigianato locale, Dar el-Batha, la guida mi conduce a visitare un’interessante fabbrica di ceramiche e oggetti rivestiti in mosaici dove incontro per pura casualità una guida marocchina parlante italiano, Mounir Majid, che mesi prima avevo contattato via Facebook. Seguo con piacere le sue dettagliate spiegazioni e vedo nascere sotto i miei occhi, dalle abili mani di un artigiano ceramista, il famigerato tajine, il tegame in terracotta con il coperchio a forma di cono che consente un metodo di cottura lento e a bassa temperatura: l’umidità dei cibi sale infatti verso l’alto, lungo il cono, una volta in cima si condensa e ricade mescolando i sapori e donando una particolare morbidezza a carne (agnello, pollo, manzo), ortaggi e tante, tantissime spezie.

Fès, nella fabbrica di ceramiche

A questo punto della giornata sento di avere una gran fame e così la mia sollecita guida mi porta in un ristorantino del Suk davvero particolare. Qui si può accedere alla cucina e, insieme agli altri avventori, tutti con in mano il proprio cucchiaino, assaggiare le varie pietanze da una serie di ciotoline. Una volta scelto il piatto preferito ci si accomoda ai tavoli ed in pochi minuti vengono serviti i piatti prescelti. Ormai siamo agli sgoccioli della visita in compagnia della mia guida che, prima di entrare nella medina, mi aveva accompagnato in macchina a dare un’occhiata veloce alla parte nuova di Fès dove sorge Dar el-Makhzen, la principale residenza del sultano, imponente edificio che ancora oggi viene usato dal re del Marocco quando è in visita a Fès. Anche in questo caso mi devo accontentare di una visita esterna, ammirando il magnifico portale in stile moresco e le porte di bronzo dalle raffinate incisioni. Una brevissima sosta nel mio Riad e ritorno in autonomia nel Suk, cercando di memorizzare i negozi che mi colpiscono di più in modo da poter poi districarmi nel dedalo di viuzze e ritrovare la via di casa. Acquisto una marea di souvenir e regali, soprattutto oggetti in profumato legno intagliato, bicchierini decorati, una suggestiva piccola lampada da muro in ottone e poi i prelibati datteri marocchini al naturale, morbidi e non dolciastri. Il giorno successivo raggiungo in taxi la Medersa Bou Inanuia, la più grande e sontuosa Medersa mai fatta costruire dai Merinidi, uno dei pochi edifici religiosi islamici del paese ad essere aperto ai non musulmani. Moschea, cattedrale, residenza degli studenti e scuola al tempo stesso, Bou Inania, deve la sua complessità architettonica alle sue molteplici funzioni.

Fès, il Fondouk el-Nejjarine

Una breve sosta fotografica al bianco cimitero di Fès e sono pronta a tornare nel mio Riad per preparare il vestiario che, come al solito, ho sparso in giro per tutta la camera. L’indomani mi aspetta infatti una lunga trasferta al sito di Volubilis e alla città imperiale di Meknes, prima di salire, il giorno successivo, sul bus che, in circa quattro ore e mezza, mi avrebbe portato al gioiello blu del Marocco: Chefchaouen.

Tra la piana fertile del Rarb e il Medio Atlante, Meknès e Volubilis si trovano nel cuore di un’area agricola che è stata il granaio del Marocco fin dall’antichità. Dopo una breve sosta per acquistare lungo la strada da un ambulante un piccolo Fossile Nero a forma di cuore, ricavato da un marmo a fondo nero omogeneo su cui si stagliano veri organismi fossili di tonalità chiara, giungiamo a Volubilis, principale sito archeologico del Marocco. L’autista mi accorda poco più di un’ora per la visita in libertà dei resti della città romana che iniziò a prosperare sotto i re di Mauretania, regione storica del Nord Africa. Conosciuto fin dal XVIII secolo, Volubilis fu al centro di ricerche archeologiche solo all’inizio dell’Ottocento, scavi che, intensificatesi intorno al 1915, proseguono tuttora, rivelando un insediamento al quale i Romani hanno imposto il proprio stile di vita, creando bagni pubblici, frantoi, panetterie acquedotti, fognature e negozi che oggi permettono di capire come si viveva all’epoca. Mi soffermo ad ammirare i resti della Basilica che, insieme all’Arco di Trionfo (ricostruito nel 1933), è l’unica costruzione le cui rovine erano di dimensioni notevoli all’inizio degli scavi.

Volubilis

Mi inoltro in quella che fu la Villa delle colonne, risalgo la scalinata dello scenografico Campidoglio con l’altare per i sacrifici e immortalo con la mia macchina fotografica e la mia videocamera alcuni mosaici ottimamente conservati, come quello raffigurante Diana e le Ninfe al bagno, ritrovato nella Villa del corteo. Prima di raggiungere Meknès, l’autista si ferma lungo la strada panoramica per farmi immortalare la piccola città di Moulay Idriss che sorge abbarbicata a due speroni rocciosi in mezzo ai quali si trova la Tomba di Idriss I, discendente di Ali, cognato di Maometto, nonché fondatore della prima dinastia arabo musulmana in Marocco. Peccato che il controluce non mi permetta di scattare una foto degna dell’ambiente splendido in cui sorge la città costruita per lo più con edifici di un bianco brillante. Attraversata la pizzetta del paese un “vecchietto” (in realtà poi scopro che ha solo 50 anni, sette meno di me), mi propone di seguirlo lungo una serie di ripidi scalini che tagliano il borgo per condurmi fino ad una terrazza da cui si gode una splendida visuale sull’abitato e sul mausoleo.

Moulay Idriss

Non mi faccio pregare e, arrancando dietro al “vecchietto” raggiungo il punto panoramico. Da qui effettivamente la vista e spettacolare e il sole alle mie spalle enfatizza i colori delle case, le viuzze impervie, le pizzette e, ovviamente, il tetto verde del sacro mausoleo. Ritornati in piazza, dove mi attende l’autista, l’anziana guida improvvisata mi richiede l’immancabile obolo e, non accontentandosi dei pochi dinari che gli porgo comincia a imprecare: solo grazie al tempestivo intervento del mio autista riesco a liberarmi dalle sue “grinfie”.

Protetta da tre mura che in totale si estendono per 40 chilometri, la Medina di Meknès ha l’aspetto di una solida fortezza su cui si aprono eleganti portali per lo più in restauro al momento del mio arrivo in città. La visita, per questioni di tempo, si limita ad una veloce visuale del portale moresco del Palazzo reale (ovviamente non visitabile all’interno) e al magnifico mausoleo di Moulay Ismail, un monumento che al primo colpo d’occhio, prima di entrare nella camera sepolcrale, mi sembra un po’ troppo “nuovo” ma che poi si rivela uno dei luoghi più suggestivi e affascinanti dell’intero viaggio.

Lungo le mura di Meknès

Con il suo insieme di tre sale, dodici colonne e il santuario centrale dove riposano le spoglie del grande sultano, il mausoleo di Moulay Ismail ricorda in un certo qual modo le Tombe Saadite di Marrakesh. Costruito nel XVII secolo e rimodellato nel XVII e XX secolo, si rivela mano mano in tutta la sua magnificenza. In particolare resto a bocca aperta davanti allo sfarzo della camera sepolcrale, un insieme di tre sale, tra cui la sala delle abluzioni, ricoperta di piastrelle laccate di verde, con la fonte al centro e una porta in legno intagliato e dipinto. E’ già tempo di far ritorno a Fès, gustare l’ultimo tajine nel mio Riad (opto per la terza volta per le kefta, polpette al pomodoro aromatizzate con cumino e curcuma) e mettere in ordine i bagagli in vista della partenza del giorno successivo. Il titolare del Riad mi accompagna in auto alla stazione dei bus: mi aspettano circa quattro ore e mezza di strada per raggiungere la perla blu: Chefchaouen. Ci arrivo intorno alle 20 con una gran fame, il tempo di lasciare il bagaglio in camera e mi precipito verso la città vecchia che raggiungo in meno di 15 minuti a piedi dal mio Riad.

Chefchaouen

Strade strette e ripide con edifici intonacate di bianco e indaco, piazzette, fontane dalle belle decorazioni e case con porte riccamente abbellite da borchie, tetti di tegole rosse, ringhiere di ferro battuto alle finestre, Chefchaouen è una cittadina deliziosa, tanto da essere perennemente invasa da frotte di turisti in gita giornaliera. Io vi soggiorno due notti per godere in tranquillità della sua pittoresca bellezza. Nelle prime ore del mattino la “città blu” non è ancora invasa dai turisti che si soffermano ad acquistare souvenir lungo l’interminabile fila di botteghe delle Medina che conduce fino a Place Uta el-Hammam, cuore della città vecchia. Qui osservo le donne berbere che disegnano le mani delle turiste con l’hennè, un civettuolo abbellimento ma anche una protezione contro le forze soprannaturali e gli spiriti cattivi. Ed è sempre qui, in Place Uta el-Hammam che assaggio il mio primo tajine a base di pesce (Chefchaouen non è molto distante dal mare), optando per i gamberi aromatizzati con spezie delicate che mi vengono serviti, ancora sfrigolanti e profumati, sotto il cono della pentola in terracotta. Ed è sempre qui che che noto prima un’anziana dallo sguardo dolente e rassegnato con un cerotto sul naso e, il giorno successivo, una donna più giovane con occhiali scuri e il naso (probabilmente rotto), protetto da un tutore. In Marocco, paese maschilista e patriarcale, la violenza domestica è una piaga a cui pare non esserci rimedio perché sono le donne stesse ad accettarla come un fatto ineluttabile. Me ne aveva accennato giorni prima una delle giovani titolari del Riad di Fès mentre mi accompagnava ad un ATM a ritirare il contante visto che il pos dell’hotel non funzionava (ho l’abitudine di partire sempre con pochi soldi).

A Chefchaouen

I due giorni a Chefchaouen sono un susseguirsi di meravigliose scoperte: l’antico Fondouk (il Fondaco) 50 sale intorno a un semplice cortile che servivano a ospitare i viandanti e i commercianti di passaggio, la kasbah d’influsso andaluso, ed il quartiere spagnolo che accolse la seconda ondata di immigrati, musulmani ed ebrei espulsi dalla Spagna, oggi un pullulare di piccole botteghe artigiane, soprattutto di tessitori. Le strade ripide del quartiere andaluso mi conducono verso la montagna. Oltrepasso la Bab el-Ansar, la porta a nord-ovest della città e mi ritrovo in un angolo molto suggestivo, caratterizzato da mulini ad acqua, antiche vasche usate come lavanderie e caffè e ristorantini che si susseguono lungo una fresca sorgente di origine sotterranea che va a formare rivoli e cascatelle. Ed è qui, sulla facciata di un edificio celeste su cui si aprono piccole finestre ad arco che un abile pittore ha dipinto un grande murales raffigurante il volto di una giovane donna che si copre la bocca e il naso con il velo azzurro. Sotto i lucenti capelli neri spuntano due grandi occhi azzurro-verdi che mi fissano con intensità. E’ il posto adatto per una foto ritratto. Mi metto al centro del murales, tra i grandi occhi della donna sconosciuta e chiedo ad un passante di scattare la foto che, fino al prossimo viaggio, sarà l’immagine del mio profilo whatsApp.

di Claudia Meschini