Deserti, ghiacciai, laghi, vulcani, foreste, la Cordigliera delle Ande e l’Oceano Pacifico, l’intero territorio cileno offre un fantasmagorico spettacolo della natura che io e Gianmarco decidiamo di scoprire. Il nostro viaggio nel “Paese sottile”, inizia da Puerto Varas, cittadina elegante sulla riva del lago Llanquihue: strade larghe, prati all’inglese e bellissimi panorami sui monti Calbuco e Osorno, due vulcani ancora attivi, ricoperti da ghiacciai.
Osorno, per la sua perfetta forma conica, è spesso paragonato al più noto monte Fuji, in Giappone. Sorta nel 1854 con l’arrivo dei coloni tedeschi, Puerto Varas è il punto di partenza per visitare le Cascate di Petrohué, gorgoglianti rapide del fiume fra le nere rocce vulcaniche ed il vicino lago Todos Los Santos, specchio d’acqua di un verde profondo e di incredibile trasparenza che io e Gianmarco esploriamo in barca. La perla del lago Llanquihue, il più grande del Cile, è Frutillar, borgo fermo nel tempo, simile a un fantasioso paesino di bambole, lindo e ben tenuto. Il “Campo di fragole”, questo significa il suo nome, ha un’inconfondibile architettura tedesca con dimore eleganti di fine Ottocento e Novecento in legno colorato, perfettamente conservate. Anche i negozi richiamano le origini tedesche dei suoi primi abitanti che posero le fondamenta della città nel 1856. I tedeschi hanno lasciato un segno profondo nella cultura, negli usi, nei costumi e anche nell’alimentazione di questa fetta di territorio cileno, considerato il “giardino del Cile”, molti a distanza di decenni sono ancora luterani, parlano il tedesco, lingua che viene anche insegnata nelle scuole.
Nella zona del distretto dei laghi trovarono rifugio anche numerosi nazisti in fuga dalla Germania dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Quattro ore tra bus, taxi e poi un breve tragitto in traghetto ci separano dall’arcipelago di Chiloè, dove Isabelle Allende, la grande scrittrice cilena, ha ambientato uno dei suoi libri più affascinanti ” Il quaderno di Maya”. Qui il fenomeno delle marre è così marcato (da 4 a 7 metri) da consentire di passare dall’una all’altra isola con facilità, in alcuni casi anche a piedi. Ricca di testimonianze della colonizzazione spagnola, Chiloè si contraddistingue per la singolare architettura delle case, principalmente in legno colorato, alcune su palafitte, e delle sue caratteristiche chiese, costruite dai missionari gesuiti a partire dal 1608, anno del loro sbarco su queste isole prima abitate solo dagli indios Hiulliche. Le chiese, anch’esse in legno dipinto, furono costruite senza utilizzare neanche un chiodo (cosa che avrei ritrovato anche in Russia sull’isola di Kiji), e quelle che restano ancora oggi, circa 160 (16 sono state dichiarate Patrimonio dell’Umanità), vengono decorate dagli abitanti con statue e intagli lignei dallo stile semplice e ingenuo.
Alloggiamo nell’isola maggiore l’Isla Grande, nella capitale, Castro, costruita su un piccolo promontorio, all’inizio di un lungo fiordo. Ci colpisce, nella pizza principale, Plaza de Armas, l’abbagliante chiesa di San Francisco, con gli esterni arancioni, rosa e porpora e l’interno (colonne e capriate del soffitto incluse), realizzato interamente in legno duro nativo dell’isola. Terra di tradizioni, di leggende e saghe popolate da gnomi ed elfi, spiriti e streghe, guaritori e brujos, che sono i protagonisti dei racconti dei Chilotes, l’arcipelago è ricco di affascinanti piccoli borghi come Dalcahuè, con poche case in legno allineate sul mare e Ancud con il suo mercato del pesce e le botteghe di artigianato.
Un traghetto ci porta poi sull’ondulata e verdissima isla de Quinchao, dove visitiamo Curaco de Vélez, con le sue belle case in legno dipinte a colori vivaci ed il paesino di Achao. La sua unica chiesa è sormontata da una torre di 25 metri rivestita con pannelli di alerce uniti tra loro solo con pioli di legno, tanto simile a quelle vichinghe che anni addietro ho ammirato del museo etnografico all’aperto di Oslo. Prima di lasciare Chiloè scattiamo una serie di belle foto alle case su palafitta di Castro, le tipiche abitazioni dei pescatori arrampicate su alti pali immersi nell’acqua che rimangono scoperti il mattino quando il mare si ritira per effetto della marea.
VERSO LA PATAGONIA CILENA E ARGENTINA
Il tempo di assaggiare il famoso Caldo de Neruda o pailla marina, una gustosissima e leggermente piccante zuppa a base di crostacei, frutti di mare, pesce e patate, e siamo pronti a tornare a Puerto Montt e salire sull’areo che ci porterà nella Patagonia Cilena, a Punta Arenas, sullo stretto di Magellano. Dall’aereo ammiriamo le Ande ed i ghiacciai perenni, tra cui lo spettacolare Perito Moreno che visiteremo la giornata stessa.
Un tragitto in bus di due ore ci porta a Puerto Natales cittadina che si trova sul Seno Ultima Esperanza, uno stretto canale turchese. Da un lato svettano montagne grigie, coperte di ghiaccio e neve, in contrasto con la pianeggiante pampa che si estende a est della città. Molteplici le attrattive della zona: con una gita in barca veloce, attraverso gli splendidi paesaggi che costeggiano il fiordo Ultima Esperanza, si arriva al cospetto del millenario ghiacciaio Balmaceda, la gita prosegue poi con una breve camminata per raggiungere il ghiacciaio Serrano. Ma il clou del nostro soggiorno a Puerto Natales è la visita del Parque Nacional Torres del Paine. La giornata è umida, fredda e la sveglia all’alba mi mette di cattivo umore. In gruppo organizzato, cosa che francamente detesto, camminiamo per circa un chilometro fra alberi contorti, lungo un sentiero che sale leggermente fino alla grotte del Milodonte. All’ingresso c’è una riproduzione del milodonte, un enorme bradipo preistorico, vissuto solo nell’America del Sud, i cui resti furono rinvenuti nel 1895 da Hermann eberhard. Ne ricostruisce l’avventuroso ritrovamento Bruce Chatwin nel suo libro “In Patagonia”. Purtroppo le torri ed i pinnacoli che fanno assomigliare il massiccio del Paine ad una cattedrale gotica, sono coperte dalle nubi e dalla foschia e non possiamo quindi ammirarne l’innaturale eleganza. Più fortunata l’escursione in barca sul lago Grey, nato dall’omonimo ghiacciaio su cui galleggiano stupefacenti blocchi di ghiaccio dall’incredibile colorazione di un azzurro intenso. Attraversiamo quindi in autobus la frontiera che separa il Cile dall’Argentina per raggiungere la cittadina di El Calafate, base turistica per la visita del Parco Nazionale Los Glaciares e del famoso ghiacciaio Perito Moreno, nella Patagonia argentina.
Il parco, istituito nel 1937 ed inserito nel 1981 nell’elenco dei Patrimoni dell’umanità dell’Unesco, ospita oltre al Perito Moreno, anche i ghiacci Upsala e Spegazzini che ammiriamo durante una spettacolare escursione in barca sul Lago Argentino. Un’alba stupefacente illumina di rosa, arancione e rosso i monti imbiancati, colori che contrastano con i blu ed il verde profondo delle acque del lago. Durante la sosta alla Bahía Onelli punteggiata di piccoli iceberg azzurri un ragazzo nordico decide di farsi una bella nuotata, un capriccio che non gli è comunque fatale, visto che l’avremmo poi rincontrato, vivo e vegeto e neanche raffreddato, in un ristorante la sera stessa. I giorni successivi sono dedicati alla visita, prima via acqua poi via terra, lungo panoramiche passerelle in legno, del Perito Moreno il cui fronte è formato da una lingua anteriore lunga circa 5 chilometri che si staglia per oltre 60 metri sul lago Argentino. Il Perito Moreno è un ghiacciaio in movimento, peculiarità dovuta all’esistenza alla sua base di una sorta di cuscino d’acqua che lo tiene staccato dalla roccia.
Dalla parete di ghiaccio si staccano, con un fragore a volte assordante, piccoli e grandi blocchi azzurrognoli che precipitano nelle acque sottostanti. Prima di prendere un volo che ci porterà all’estremo nord del Cile, nel deserto di Atacama, trascorriamo un paio di giorni a Punta Arena, sullo scenografico stretto di Magellano, così spesso battuto dal vento. La cittadina offre poche attrattive, uno scenografico cimitero attraversato da una rete di sentieri, fiancheggiati da cipressi tosati alla perfezione ed il museo Salesiano Maggiorino Borgatello con i suoi reperti geologici e animali imbalsamati. Al centro della città si erge la statua bronzea di Magellano, ai cui piedi vi sono un indio Selknam, che rappresenta la Terra del fuoco e un tehuelche, che raffigura la Patagonia. In traghetto raggiungiamo il Parque National Los Pinguinos, sull’Isla Magdalena per ammirare le migliaia di pinguini magellanici, detti anche “pinguini somari” per il loro richiamo simile al ragliare di un asino, che migrano qui in estate e ritornano sulle coste del Brasile in inverno.
IL GRANDE NORD: IL DESERTO DI ATACAMA
Ed eccoci nuovamente in volo per la nostra ultima tappa in terra cilena: Atacama. Qui, nel 2010 crollò la miniera di rame ed oro di San José, bloccando 33 minatori per oltre due mesi sotto terra, a 600 metri di profondità, un incredibile storia poi raccontata nel 2015 nel film “The 33”, diretto da Patricia Riggen. Alloggiamo nel piccolo paesino di San Pedro de Atacama, adagiato tra l’altipiano e il deserto a 2400 metri d’altitudine, con un’unica strada costellata di negozietti d’artigianato dove acquistare indumenti di alpaca e altri souvenir, ristoranti e agenzie di viaggio.
Attorno alla Plaza de Armas, ombreggiata da alberi del pepe, vi sono i più importanti edifici del villaggio, la bianca chiesa de San Pedro, con il suo singolare soffitto rivestito di legno di cactus ed il museo archeologico Pedro Gustave Le Paige, dove riposa la mummia preistorica di una giovane donna seduta con le ginocchia piegate sul petto, conservata dentro una teca di vetro. Chiamata effettuosamente Miss Cile, la joven ha lunghi capelli neri ed un volto, avvizzito e coriaceo di cui ancora si riconoscono le fattezze delicate. A preservare il corpo dal deterioramento sono stati il terreno secco e salmastro della zona. La nostra prima escursione alla scoperta del magnifico Deserto di Atacatama è alla Valle de la Luna: uno spettacolare paesaggio lunare di colline erose dal vento disposte intorno a una valle simile ad una crosta, che un tempo era il fondale di un lago. Una coppia con il suo cane s’inerpica coraggiosamente lungo un’immensa duna di sabbia, mentre noi, per contemplare il paesaggio circostante, preferiamo inoltrarci con il resto del gruppo su un breve sentiero in salita dalla cui sommità ammiriamo un magnifico tramonto che accede di rosa e arancione i cristalli di sale che ricoprono il terreno. Il nostro sguardo si perde in una visone infinita di formazioni rocciose, magmatiche, dalle forme bizzarre, mentre sull’orizzonte si stagliano le cime dei vulcani innevati. Tappa successivo del tour in fuori strada sono le Tres Marias, tre speroni di roccia contorti, simili ad altrettante donne chinate. “In lontananza una catena di montagne violacee come pennellate ad acquerello che stagliavano contro un cielo limpido color lavanda”, cosi Isabel Allende descrive il nord del Cile nel suo ultimo romanzo “Lungo petalo di mare”.
Quelle stesse magiche montagne io e Gianmarco le ammiriamo nei giorni successivi dedicati alle escursioni alle lagune e al Salar de Aguas Calientes, bianca e lucente distesa salina punteggiata da bacini di acqua salmastra ricchi di micro organismi e alghe che rappresentano l’alimento base per fenicotteri e uccelli acquatici. Resto letteralmente a bocca aperta alla vista delle lagune Miscanti e Miñiques, situate all’interno della Riserva Nazionale Los Flamencos, a più di 4 mila metri di altezza. Le loro acque di un azzurro intenso e le rive bianche che contrastano magicamente con le montagne sono un vero e proprio prodigio della natura. In un piccolo Ojos del Salar, che si potrebbe tradurre con “gli occhi della pianura di sale”, Gianmarco si concede un bagno ristoratore. L’acqua è così ricca di sali che è semplicissimo restare a galla così come accade nel Mar Morto, in Giordania. Purtroppo l’escursione alle lagune in Bolivia si rivela per me un incubo.
Partiamo in gruppo in fuoristrada all’alba. Indosso abiti leggeri da gita fuori porta e in un battibaleno ci troviamo ad oltre 4000 mila metri in mezzo alla neve. Dopo una colazione “abominevole” in un capanno in legno, io ed un’altra coppia decidiamo di limitare la nostra escursione alle sole Laguna Bianca e Laguna Verde, rinunciando alla più distante Laguna Colorada. Purtroppo anche il meteo non mi sostiene, nubi e foschia smorzano i colori della Laguna Verde, un piccolo lago salato color smeraldo che deve la sua colorazione ai sedimenti che si depositano sul fondo, composti da minerali di rame. Una sottile striscia di terra separa la Laguna Verde dalla Laguna Bianca, lago salato e bacino endoreico, il cui nome deriva dalla colorazione biancastra delle sue acque, dovuta all’elevato contenuto di sali minerali in sospensione.
Prima di lasciare il deserto di Atacama visitiamo i caratteristici villaggi di artigiani di Toconao e Socaire dove gusto un’ottima empanada de pino che ancora oggi, a distanza di anni, è entrata nel mio personale bagaglio di ricette dal mondo: un fagottino di morbida pasta ripieno di carne macinata leggermente speziata, cipolla, olive e uova sode, che io traslato in una altrettanto buona torta salata di pesta brisée. Purtroppo la confezione di centola bollita, il granchio reale cileno, che inavvertitamente imbarco nel bagaglio a mano invece che nella valigia in stiva, finisce, con mio grandissimo disappunto, nel cestino dei rifiuti dell’aeroporto.
IL CILE NEL PIATTO
La cucina cilena nasce dall’incontro della tradizione indigena con quella spagnola del periodo del colonialismo. Ma non solo, infatti nel corso del tempo è stata influenzata anche dalla cucina degli immigrati provenienti dall’Italia, dalla Germania e dalla Francia. Tutte queste tradizioni culinarie hanno portato alla nascita della cucina creola cilena con ingredienti e piatti tipici molto variegati.
Negli ultimi anni, la cultura enogastronomica cilena ha assunto una rilevanza tale che nel 2009 è stato addirittura istituito il Día de la Cocina Chilena: giornata dedicata alla storia gastronomica del Cile e alla sua attuale cucina che si celebra ogni anno il 15 aprile. In Cile, appena ci si siede a tavola, viene sempre servito il cosiddetto pan con pebre che sarebbero dei paninetti caldi fatti al momento accompagnati da una salsina – pebre appunto – composta da aglio, cipolla, pomodoro, olio, aceto, coriandolo e peperoncino. Molto spesso nei menù è presente la cazuela de ave o de vacuno tra le entradas, gli antipasti, una sorta di zuppa servita in un piatto fondo, generalmente il tipico piatto d’argilla con pollo “ave” o manzo “vacuno“, patate, zucca gialla, riso e spezie o erbe aromatiche. Esiste ovviamente anche la versione marinara con pesce e crostacei. Un piatto tipicamente cileno sono le empanadas, si tratta di tradizionali calzoni ripieni di carne, ma anche di pesce e persino vegetariane, che possono essere fritti o al forno. Il pastel de choclo, come dice il none è un vero e proprio pasticcio di mais, gli ingredienti di questo piatto sono la carne di manzo, il pollo, le olive nere, l’uvetta, le cipolle oppure fette di uova bollite, il tutto viene poi ricoperto da una crema di mais e gratinato in forno. Un altro piatto molto famoso della cucina cilena è l’asado di cordero patagonico e cioè l’arrosto di agnello della Patagonia, una razza ovina particolare e molto pregiata per le sue carni.
Numerosi, ovviamente anche i piatti a base di pesce. Impedibile la centolla, un granchio enorme tipico del Cile, la cui polpa viene poi utilizzata anche per preparare il chupe de centolla cioè il pasticcio di granchio. Tra gli ingredienti oltre al granchio, troviamo anche crema di latte, peperoni, aglio, cipolla, parmigiano grattugiato, peperoncino. Gustosissimo anche il cheviche, un piatto a base di pesce crudo, particolarmente diffuso nella cucina cilena anche se di origine peruviana, si prepara con pesce freschissimo, succo di lime, sale, cipolla rossa e coriandolo. Per digerire tutti questi piatti, non proprio leggeri, a fine pasto, non c’è niente di più indicato del pisco, un’acquavite locale, originaria del Perù, ricavata dalla distillazione di vino bianco e rosato.
Di Claudia Meschini
Foto Gianmarco Maggiolini (esclusa la “centolla”)