Un viaggio a ritroso nel tempo, fatto di semplici ed antichi riti, di bandierine colorate al vento, di ruote della preghiera, di pellegrini che attorno ai loro sacri gompas (monasteri) recitano mantra (preghiere); ma anche di scenari mozzafiato, di alte cime innevate e di scintillanti laghi salati. Questo è il Ladakh, dove il tempo pare essersi fermato.
Il Ladakh, terra di valichi, arido altipiano che rappresenta l’estrema punta a nord dell’India, è chiuso a sud dalla catena himalayana ed è il proseguimento dell’altipiano tibetano di cui conserva intatti i caratteri geografici e culturali, tanto da meritarsi giustamente l’appellativo di “Piccolo Tibet”. Nelle sue valli esplode il verde degli appezzamenti coltivati ad orzo; lungo i corsi d’acqua prosperano pioppi e betulle; sui pendii le case sono arroccate l’una all’altra ed i solenni e severi monasteri sembrano altari nati spontaneamente dalla roccia.
Leh, la piccola capitale del Ladakh, è stata punto di snodo delle vivaci carovane tra il Punjab e l’Asia centrale, tra il Kashmir e il Tibet. L’ampio Main Bazaar della cittadina, con strade dai larghi marciapiedi fu progettato per facilitare il passaggio di cavalli, asini e cammelli e per l’esposizione e la conservazione delle merci. Oggi è un allegro e colorato susseguirsi di negozi di cibarie, tessuti (le immancabili pashmine, in particolare), gioielli in argento e pietre semi preziose, oggetti di artigianato come scatole o teiere realizzati in metallo e incastonati di coralli, lapislazzuli e turchesi e oggetti religiosi, tra cui le immancabili ruote della preghiera in tutte le fogge e misure.
Sui marciapiedi del bazaar siedono le donne dei villaggi vicini con grosse ceste di verdura fresca: nelle pause filano la lana sul fuso o chiacchierano animatamente. Qui si trova anche lo Jokhang, un moderno edificio buddista e la moschea cittadina; dal Main Bazaar ci si può addentrare nell’Old Town, con il suo labirinto di viuzze punteggiate di chorten (piccolo monumento buddista) e assolati gruppi di casette di mattoni dai tetti a terrazza. Dominano la città i nove piani del Leh Palace, voluto intorno al 1630 da Sengge Namgyal. Costruttore di molti monasteri e forti, nonchè grande conquistatore, è il re più famoso del Ladakh. Le massicce mura inclinate hanno le stesso stile architettonico del Potala Palace di Lhasa in Tibet. Purtroppo, se la parte esterna del palazzo ancora resiste, l’interno è rovinato; i visitatori possono però salire sulla terrazza all’aperto sopra all’ingresso principale e godersi un bel panorama.
Sulla vetta che sovrasta la città ci sono il piccolo forte e il complesso monastico di Namgyal Tsemo (metà XVI secolo), che si crede sia stata la prima residenza reali di Leh.
Lo Shanti Stupa (pagoda della pace), la cui costruzione fu sponsorizzata negli anni’80 dai buddisti giapponesi, si trova su una cima a ovest della città ed è di un bianco abbagliante.
Camminando per meno di dieci minuti in qualsiasi direzione dal centro città si raggiungono campi di orzo, verdi o dorati a secondo della stagione. Ai piedi della collina del villaggio di Skara, attirano l’attenzione le massicce mura del forte di fango Zorawar Fort del XIX secolo. Non lontano il ben conservato Sankar Monastery del XIX secolo con le suggestive immagini di Avalokitesvara e di Vajra-Bhairav, guardiano dell’ordine Gelugpa.
Collocato scenograficamente in cima a un monte, tanto vicino all’aeroporto che le ali degli aerei che atterrano quasi ne sfiorano le mura, lo Spituk Monastery, del XV secolo, è l’insediamento più antico della setta Gelugpa nel Ladakh. Ospita la biblioteca di Tsongkapa, fondatore della setta e un santuario alla dea Tara, con sconvolgenti immagini delle sue varie rappresentazioni. Situato in uno dei villaggi più belli del Ladakh, il Phiyang Monastery, del XVI secolo, è uno dei due santuari della setta Drigungpa. Tra i tanti tesori, una vasta collezione di bronzi del Kashmir e di divinità buddiste risalenti al XIII secolo.
Molti monasteri del Ladakh famosi in tutto il mondo si trovano nella Valle dell’Indo, cuore storico e culturale della regione. La tipica posizione di un monastero (gompa) è sopra un monte o un crinale sovrastante un villaggio. La parte superiore è costituita da templi e sale assembleari, oltre che dal gonkhang, il tempio delle temibili divinità guardiane. Le dimore dei monaci sono sparse sul fianco della collina. I monasteri sono tuttora centri di culto attivi, per cui occorre tenere un comportamento rispettoso. Se siete fortunati vi potrà capitare di assistere alla realizzazione, da parte di alcuni monaci residenti in un monastero, di un mandala di sabbia, simbolo dell’universo. I mandala caratterizzati da colori sgargianti, vengono meticolosamente creati e poi distrutti. Aiutano i monaci a meditare. Svariati i monasteri da visitare lungo il fiume Indo: Likir, risalente al XII secolo, ospita una bella raccolta di thangka ed effigi con cornici di legno inciso. Ridzong è costruito sulla cima di un crinale di detriti glaciali che chiude una tortuosa gola.
Fondato intorno al 1840 dalla setta Gelugpa, i suoi monaci osservano un regime austero. Lamayuru è in posizione spettacolare su un’alta roccia sovrastante un paesaggio sinistramente eroso. Risalente forse all’XI secolo, il tempio più antico ospita una famosa effige di Vairocana, il Buddha centrale della meditazione e una bella collezione di thangka. I thangka, dipinti su rotoli incorniciati di seta, raffigurano divinità buddiste e sono oggi tra le forme d’arte tenute in vita dagli esiliati tibetani.
Stakna fu costruito nel XII secolo e tutt’oggi si contraddistingue per gli affreschi a colori vivaci. Al suo interno troviamo un bellissimo chorten in argento. Basgo, scenografico e dall’aspetto un po’ inquietante, è contornato da quel che resta del villaggio che fu la capitale del Ladakh inferiore nei secoli XIV e XV. Chemerey, arroccato in cima a un monte, risale al 1640 circa e ospita testi sacri buddisti con copertine in d’argento e caratteri in oro; Thikse, gemma architettonica del XV secolo incorona la cresta di una collina. E’ un monastero gelugpa con un moderno tempio di Maitreya consacrato dal Dalai Lama. Shey era l’antica capitale del Ladakh.
Nel palazzo abbandonato si trova un tempio con un effige gigante del Buddha del tardo XVI secolo attorniata da affreschi di divinità a colori forti e oro.
Fino all’indipendenza del 1843, il palazzo di Stok è stato la residenza dei Namgyal, gli ex governatori del Ladakh. Parte del palazzo è stata trasformata in un museo della dinastia reale. Tra le collezioni una raccolta di 35 thangka raffiguranti la vita del Buddha, delle belle coppe di giada, una spada con la lama annodata, i gioielli della regina, tra cui uno spettacolare copricapo, la corona reale a forma di turbante e i paramenti cerimoniali.
Fondata agli inizi del XII secolo l’enclave religiosa di Alchi è la perla dei monasteri del Ladakh. Il villaggio e l’attiguo monastero sono pittorescamente situati su un’ansa del fiume Indo; i suoi bianchi edifici bordati di rosso scuro spiccano su un suggestivo sfondo di aride montagne. Per ragioni sconosciute Alchi smise di essere un centro di culto attivo già nel XVI secolo quindi, non usurati dalla fuliggine delle lampade e dell’incenso, i dipinti dei secoli XVI e XII di questi templi si sono conservati alla perfezione. Sconosciuto fino al 1974, quando il Ladakh fu aperto ai turisti, Alchi, noto centro di arte buddista, è ora una delle principali attrazioni del Paese. L’intero pantheon di divinità del buddismo Mahayana è rappresentato nei suoi cinque templi, oltre a splendidi dipinti di scene di corte, battaglie e pellegrinaggi, che illustrano gli abiti, l’architettura e gli usi del tempo.
Nascosto in una tortuosa valletta sulle montagne a sud dell’Indo, Hemis è il monastero più grande del Ladakh centrale. Fondato intorno al 1630 dal re Sengge Namgyal, si contraddistingue per il grande cortile e per una bella effige del Buddha posta davanti ad un enorme chorten in argento e turchesi perfettamente intatti.
IL FESTIVAL DI HEMIS
Il cortile dell’Hemis Gompa è il palcoscenico del famoso Festival di Hemis, un dramma danzato, suddiviso in diverse scene, che celebra l’anniversario della nascita di Guru Padmasambhava, apostolo indiano del VIII secolo che introdusse il buddismo in Tibet. Questo colorato spettacolo cade il 10° giorno (Tse-Chu) del mese lunare tibetano. Pellegrini provenienti da ogni angolo del paese, a volte anche a giorni di cammino di distanza, vestiti degli abiti tradizionali migliori, si riuniscono nel cortile principale per assistere ai due giorni di celebrazioni volti a rievocare la vita e gli insegnamenti del Guru nel giorno della sua nascita.
La popolazione locale accorre numerosissima e si mescola con i tanti turisti sistemati, almeno quelli che vi accedono con gruppi organizzati, in settori appositi, forniti anche di sedie. Il Festival è un momento di ritrovo e di divertimento ma soprattutto un’occasione per il popolo di entrare in contatto con la vita e la parola del grande Maestro che gli abitanti percepiscono presente all’evento insieme a loro. Un’importante opportunità per apprendere i contenuti essenziali del suo insegnamento attraverso uno strumento accessibile a tutti. La danza è infatti il mezzo offerto dai monaci residenti ai fedeli per aiutarli a percepire l’essenza della dottrina e dargli uno stimolo per approfondire in seguito la propria ricerca personale. La sequenza delle rappresentazioni, così come i contenuti, possono essere modificati per adattarsi al folklore locale purché non vengano mai omessi gli eventi relativi alla vita del grande Guru.
I Lama, chiamati chhams, effettuano splendide danze in maschera con l’accompagnamento di cembali, tamburi e lunghe corna. Uno dei lama assume la funzione di capo e presiede la funzione. Nell’anno della scimmia, una volta ogni dodici anni, il festival assume la funzione di buon auspicio e in questa occasione viene messo in mostra il thangka alto tre piani raffigurante Padmasambhava. Si tratta del più grande tesoro del monastero, un thangka ricamato e tempestato di perle e pietre preziose e quest’anno, a luglio 2016, è stato srotolato tra il giubilo dei presenti.
Questa festa, piena di colori e suoni, è una cerimonia davvero unica nel suo genere, dal sapore ancestrale, a tratti frastornante, sicuramente affascinante. Assistere al Festival di Hemis significa gettarsi nelle tradizioni culturali e religiose di questa particolarissima regione dell’India.
Il Festival ha delle regole precise: è fondamentale aprire la cerimonia con le danze di purificazione del luogo in cui si terrà l’evento, cioè il cortile, uno spazio circolare, riproduzione terrena di un sacro mandala, che deve essere ripulito da ogni possibile presenza negativa. L’obiettivo è quello di creare una dimensione pura dove possano manifestarsi le entità divine impersonate dalle maschere. Il danzatore, attraverso la meditazione e le visualizzazioni, entra infatti in un rapporto diretto con la divinità che rappresenta e con cui ha stabilito un rapporto profondo. “Lui” è la divinità stessa. Le forze negative vengono sospinte verso il centro del mandala dal vortice delle danze e convogliate in un oggetto simbolico (un feticcio, una scatola metallica o altro) che sarà distrutto alla fine del rito.
Entrano quindi in scena i Durdag, i guardiani degli otto luoghi di cremazione posti intorno al monte Meru, secondo la cosmologia buddhista e che indossano maschere bianche aventi le sembianze di un teschio. A loro seguono gli Sha-na, i danzatori dai grandi cappelli di feltro nero e dall’abito di broccato colorato. Nessuna maschera gli copre il volto perché loro rappresentano degli Yogi, grandi maestri spirituali in grado di uccidere i demoni destinandoli però ad una rinascita in una Terra Pura dove possano ricevere gli insegnamenti di un buddha e rientrare quindi nella schiera degli esseri protettori della fede.
Un’altra sequenza possibile è la danza delle divinità terrifiche (Tungam) che vede maschere dall’aspetto terrificante uccidere gli spiriti del male per mezzo del Purbha, il pugnale tantrico con tre lame.
Una volta purificato il campo di azione potrà avere inizio il Guru Tshen Gye, la rappresentazione delle otto manifestazioni di Guru Rimpoche, Padmasambhava, che faranno il loro ingresso in processione accompagnate dal grande Maestro stesso. Caratterizzato da una maschera d’oro, è sempre protetto da un parasole e spesso accompagnato dalle due consorti Mandarava e Yeshe Tsogyal. Per riconoscere le diverse manifestazioni basterà guardarne la fisionomia, l’abito e gli attributi che recano in mano. La danza si conclude con una processione finale e con l’uscita di scena di tutte le figure. La purezza del sito dove sorge il monastero è stata così rigenerata e rimarrà tale fino al prossimo Tsechu. Allora gli abitanti del Ladakh si rimetteranno in cammino e si riuniranno di nuovo nel Gompa per assistere all’evento più atteso dell’anno.
Il Piccolo Tibet Indiano, ancora quasi integro, continua a offrirci spaccati di religiosità buddista, di arte e cultura tibetana (non profanata dai cinesi) assolutamente unici. Un Paese di una bellezza struggente: le aspre linee del suo paesaggio sono mitigate dalle oasi verde smeraldo dei villaggi, dalla luce cristallina dei suoi cieli azzurri cosparsi di nuvole candide e dai suggestivi profili di antichi monasteri buddisti che sono per molti visitatori l’attrazione principale di questo Paese.
Il periodo migliore per visitare il Ladakh è certamente quello che va da metà maggio a metà settembre quando lo scioglimento delle nevi consente l’apertura delle uniche due strade carrozzabili che connettono Leh – il capoluogo situato ad una altitudine di 3.486 metri – con il resto dell’India. Nello specifico si tratta della Manali-Leh Highway, una strada affascinante, impervia, sconnessa ed impegnativa, lunga 473 chilometri e che richiede almeno 22 ore di viaggio e della Srinagar-Leh Highway, lunga 434 chilometri per un totale di circa 18 ore di viaggio. La connessione aerea dalla capitale Nuova Delhi rimane comunque garantita durante tutto l’anno ed il volo, della durata di circa un’ora e mezzo, entusiasma per la bellezza del paesaggio sorvolato. Essendo ad oltre 3000 metri è importante acclimatarsi senza esagerare. Dedicate quindi i primi tre giorni alla visita di Leh, un ottimo modo per ambientarsi ed entrare in sintonia con la cultura locale e poi immergetevi nel paesaggio himalayano col suo deserto d’alta quota contornato da cime altissime, perennemente incappucciate di neve, un paesaggio in grado di conquistare l’anima di chiunque.
Questo viaggio ti ha incuriosito ? contatta Alessandra Massignani, rappresentante Ufficio Turismo Indiano. Cell. 3333950267 – http://www.aletravels.com/
Foto di Claudia Meschini