I viaggi umanitari di Francesca Bellemo

Francesca Bellemo, giornalista e scrittrice veneziana

Incontriamo la giornalista mestrina Francesca Bellemo, autrice di “Finchè soffia il vento di Chernobyl”, un libro-reportage grazie al quale Francesca si è aggiudicata il premio “Claudio Basso” Under 35, sezione Periodici, che l’Ordine dei Giornalisti del Veneto conferisce a giovani giornalisti che si sono distinti per i propri reportage. “Il servizio – si legge nella motivazione del riconoscimento – è un vero affresco, completo e rigoroso, che rivela una grande passione dietro lo sguardo della cronista”.

Che cosa accadde veramente quel 26 aprile del 1986 e quali sono le reali conseguenze sull’ambiente e sulla salute della popolazione ?

A Chernobyl il 26 aprile ci fu una fuoriuscita di materiale radioattivo dal reattore nucleare numero 4 che era stato danneggiato da un incendio scoppiato a causa di un test di sicurezza. Gli operatori avevano disattivato i sistemi di sicurezza e quando la temperatura cominciò a salire vertiginosamente non fu più possibile riattivarli. Errore umano, sottovalutazione del rischio, stupidità… chiamiamolo così. Si trattò della più grande catastrofe nucleare, almeno fino ad oggi. Bisogna stare a vedere cosa succede a Fukushima

Scorcio di una delle strade di Gomel, nella sua calma e bellezza apparente

Il materiale radioattivo fuoriuscito nell’atmosfera in seguito all’esplosione nucleare si disperse nell’ambiente e, portato dai venti verso nord, colpì maggiormente quei villaggi dove nei giorni successivi al disastro piovve. Ad essere più colpita fu proprio la Bielorussia, al confine con l’Ucraina dove si trova la Centrale di Chernobyl.

Le conseguenze furono e sono disastrose, migliaia di persone vennero evacuate dall’area più vicina alla centrale, intere città furono abbandonate per sempre (come accadde alla città di Prypjat), centinaia di villaggi nella regione bielorussa di Gomel furono seppelliti per contenere le radiazioni assimilate e scomparvero dalle carte geografiche. La gente fu trasferita nei grandi centri urbani.

Ma tutto questo accadde almeno dopo tre-quattro giorni dall’esplosione, perchè inizialmente le autorità sovietiche cercarono di mettere tutto a tacere. Centinaia di migliaia di persone furono esposte ad altissime dosi di radiazioni senza saperlo e soffrono ancora oggi delle conseguenze sulla loro salute con lo sviluppo di numerose forme tumorali, disfunzioni e leucemie infantili. Ma l’emergenza sanitaria è solo all’inizio in quanto l’impatto della contaminazione radioattiva si ha a distanza anche di decenni…

Il breve periodo di tempo, circa un mese, che i bimbi bielorussi trascorrono in Italia è sufficiente a fortificare le loro difese immunitarie e a “smaltire” le radiazioni accumulate ?

L’Università degli studi di Pisa ha pubblicato uno studio dimostrando che per i bambini nell’età dello sviluppo (circa dai 6 ai 18 anni) trascorrere almeno un mese all’anno per tre anni in un territorio non contaminato consente di “smaltire” una buona parte delle radiazioni accumulate negli anni, oltre che rigenerare le difese immunitarie. Anche tornando a vivere in zona contaminata una volta seguito questo “trattamento” le radiazioni assorbite saranno minori.

Quali accorgimenti dovrebbero poi rispettare una volta tornati in patria?

I bambini, insieme alle loro famiglie, dovrebbero evitare di nutrirsi con alimenti radioattivi come ad esempio i funghi dei boschi contaminati. Purtroppo la situazione di grande povertà che affligge il paese costringe molte famiglie a coltivare ortaggi e a raccogliere funghi o bacche anche dove non sarebbe consentito.

Di cosa si occupa esattamente l’associazione Help for Children?

Da 20 anni, l’associazione, si occupa di gestire l’ospitalità dei bambini bielorussi nelle famiglie italiane che aderiscono al progetto. In molte città italiane, e in particolare in Veneto, sono migliaia ogni anno i bambini che vengono accolti in casa. Si instaurano dei rapporti di amicizia splendidi che spesso e volentieri finiscono per far intraprendere agli italiani il viaggio in senso contrario, verso la Bielorussia, per andare a trovare i ragazzi nella loro casa. Il convoglio al quale ho partecipato io nel maggio 2010 era composto proprio da queste persone che hanno percorso più di 2000 km in camper per andare a far visita ai “loro” bambini, per portare viveri, vestiti e altri beni di prima necessità.

Di cosa narrano i tuoi precedenti volumi “Sulla via di Ol Moran” e “In braccio a Giovanna” ?

I miei libri sono tutti tratti da reportage di viaggi fatti insieme ad alcune associazioni di volontariato e missionari. “Sulla via di Ol Moran” racconta della realtà missionaria di Ol Moran, nella savana keniota, da più di 10 anni strettamente legata alla Diocesi di Venezia. Il libro illustra il contrasto tra la vita dei villaggi e quella delle baraccopoli nelle grandi città, l’impegno dei nostri missionari. “In braccio a Giovanna”, invece, è ambientato in Madagascar e racconta di un viaggio realizzato nel 2009 per far visita ad una giovane mestrina che ad Ambositra ha fondato una casa-famiglia per accogliere bambini di strada, figli di carcerati e orfani. Si tratta di libri che sostengono dei progetti di beneficenza, quindi l’intero ricavato viene devoluto alle associazioni responsabili dei progetti.

Il tuo prossimo viaggio a fini umanitari ?

Ci sto pensando, ma non c’è nulla di deciso. Solitamente l’occasione arriva all’improvviso, quando meno me l’aspetto. Ricevo una telefonata da qualcuno che mi dice “Senti Francesca, abbiamo bisogno di qualcuno che racconti di questa esperienza di volontariato….”. E io di solito non riesco a dire di no…

Nell’attesa leggo, studio, mi tengo pronta. La valigia sempre a portata di mano.

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