Birmania, un Paese sulla strada del cambiamento

Pescatore sul lago Inle

State per partire per Myanmar, l’ex Birmania, Paese del sud est asiatico ? E allora preparatevi a calarvi in un mondo fuori dal tempo, inattaccato dalla tecnologia moderna, un mondo ricco di tradizioni secolari, dove, per certi versi, ancora si vive e si lavora seguendo ritmi e modalità da noi scomparse almeno da un secolo.

L'iper decoratività dei templi birmani

Basta difatti semplicemente giungere a Yangon, capitale del Myanmar ed entrare in un ufficio pubblico per rendersene presto conto. Nelle banche, almeno quelle da noi visitate, non vediamo ombra di computer, solo cumuli di carta e registri accatastati su lunghe scrivanie. I dipendenti maschi si aggirano nelle ampie stanze indossando il longyi, la multicolore gonna pareo che la quasi totalità’ della popolazione maschile e’ solita usare. Le donne hanno il volto ricoperto da un velo di pasta gialla, il thanaka, crema di bellezza ricavata dalla corteccia d’albero di “limonia acidissima”. Indifferentemente, poi, dal direttore all’ultimo cassiere, tutti calzano ai piedi le ciabatte infradito, genere di scarpa comunemente usato in Myanmar. Sempre in banca abbiamo il nostro primo sgradevole approccio con un’antiestetica peculiarità’ birmana: gli uomini masticano in continuazione un impasto di calce spenta, spezie e noce di betel, i cui pigmenti colorano la saliva e i denti di rosso scuro.

Donne al lavoro nei campi

Appurato che nelle banche e negli uffici pubblici i computer rappresentano un optional, non ci stupisce il fatto che i punti internet siano altrettanto rari. Anzi, soltanto da pochi anni esiste in Myanmar un “libero” accesso alla rete (ad esclusione di alcuni siti, americani in particolare). Per un birmano, pero’, le restrizioni aumentano: fino a poco fa digitare su un computer pubblico il nome del Premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi, figura simbolo del movimento di protesta contro il governo militarista, poteva, infatti, essere fonte di guai non indifferenti. I suoi sostenitori sono stati, infatti, per anni sistematicamente perseguitati dal regime al potere.

Le lagune birmane

La svolta epocale attesa dalla Birmania da oltre vent’anni è ora finalmente arrivata. La «Signora», così come la chiamano i suoi fautori, figlia dell’eroe nazionale Aung San che nel 1947 portò la Birmania all’indipendenza dall’Inghilterra, dopo anni agli arresti domiciliari, di appelli internazionali e sacrifici in nome della causa birmana, ha trionfato nella circoscrizione di Kawmu e conquistato un seggio in Parlamento. Insieme a lei siederenno in Parlamento altri 40, forse addiririttura 44 (sui 45 seggi in palio nelle eleziani suppletive) nuovi deputati del suo partito, la Lega democratica nazionale. “Questo non è tanto un nostro trionfo quanto un trionfo per il popolo che ha deciso di partecipare al processo politico di questo paese”, ha detto la “Signora”.

Nonostante le restrizioni imposte dalla dittatura militare (un quarto dei seggi in Parlamento è controllato dalla giunta militare che sostiene il partito di governo Usdp), anzi forse grazie anche a queste, i birmani sono riusciti a mantenere nel tempo le proprie tradizioni e, soprattutto, l’innato e profondo senso religioso che in certi casi si mescola all’astrologia, all’animismo e alla venerazione dei Nat, gli spiriti buoni.

Sono centinaia i templi e le pagode (in queste ultime e’ solitamente custodita una reliquia del Budda), che abbeliscono città e villaggi. Ad un visitatore straniero può far sorridere la fastosità, obiettivamente eccessiva di alcuni luoghi di culto. Tra lo scintillio dei mosaici di vetro, spiccano centinaia di luminini elettrici e luci psichedeliche che contornano grandi statue del Budda, sovente raffigurato in due particolari posizioni: sdraiato, che rappresenta la morte fisica e al contempo il raggiungimento del massimo Nirvana, o seduto con la mano che tocca terra ad indicare il momento che precede l’illuminazione.

Una delle tante pagode della piana di Bagan

Io e Marco restiamo quasi storditi dall’abbondanza di stucchi e ornamenti multicolori, a volte terribilmente kitch come nel caso della pagoda di Sambuddha a Monywa, che fanno sembrare alcuni templi delle enormi torte nuziali, decorate di pan di zucchero. Entrando a piedi nudi, secondo la rigida regola buddista birmana, nel piazzale della maestosa pagoda di Shwedagon, ci colpisce comunque la splendente imponenza di quest’edificio interamente coperto di sottili lamine d’oro e attorniato da una vera e propria selva di templi minori. Sono ben 5500 i diamanti (di cui uno di 76 carati) e oltre 2000 le altre pietre preziose che arricchiscono la “banderuola”, parte culminante della pagoda simbolo di Yangon.

Pindaya, la grotta dei 9.000 Budda

Lasciando la capitale decidiamo di proseguire il nostro itinerario noleggiando, a buon mercato, un taxi per tre settimane. L’autista ci conduce a Kyaik-hityo, la pagoda sulla roccia d’oro, un enorme masso ricoperto di foglie d’oro in equilibrio precario in cima ad un colle. Dopo un breve percorso in camioncino proseguiamo l’ascesa a piedi, seguiti da portatori di lettiga a pagamento che, vedendomi “arrancare” sotto il sole cocente di mezzogiorno tentano di convincermi ad accomodarmi su un’invitante sdraio in legno. Di certo più veloce, ma letteralmente da brivido, il ritorno a bordo di un camioncino pieno di gente fino all’inverosimile, lanciato lungo tornanti simili a montagne russe. Molto meno “hard” il trekking che il giorno dopo ci attende a Kalaw. Risalendo dolci colline ricoperte di piantagioni di thè verde, raggiungiamo un villaggio di Paluang, una delle etnie più antiche della Birmania. Seguiti da una dozzina di vivacissimi bambini visitiamo la scuola elementare e le tipiche case lunghe, nelle quali vivono in comunità fino a sette diverse famiglie.

La questua dei monaci

Uno dei gatti acrobati del monastero di Nga Phe Chaung

Altrettanto suggestivo il lago Inle, nome che significa “quattro villaggi”. Oggi se ne contano nella zona una trentina, tutti costruiti su palafitte. Come in una Venezia d’altri tempi, la vita qui si svolge interamente sull’acqua, tra orti e mercati galleggianti, piccole manifatturiere di seta, ombrelli di carta dipinta, lacche e sigari. In equilibrio su una gamba sola (con l’altra manovrano il remo nell’acqua), i pescatori del lago Inle scivolano lungo i canali a bordo di piccole piroghe simili a gusci di noce, riempiendo di carpe e pesci gatto grandi ceste di bambù a forma di cono. I gatti più famosi del lago Inle sono pero’ quelli del monastero di Nga Phe Chaung, dove i monaci, da oltre 30 anni, per puro passatempo, addestrano schiere di mici a saltare attraverso piccoli cerchi.

Prima di raggiungere la grande città di Mandalay facciamo una breve sosta a Pindaya per visitare, sempre a piedi nudi, le famose grotte in cui sono custodite oltre 9000 statue di Budda di ogni dimensione, in gran parte ricoperte d’oro. Una targa posta sulla base di ciascuna statua riporta incisi i nomi dei devoti che, grazie alle proprie offerte in denaro, sono riusciti a far coprire di foglie d’oro una statua intera.

Ragazza truccata con il thanaka

Lungo il tragitto per Mandalay incontriamo, con nostra grande sorpresa, un suggestivo corteo di carri trainati da buoi, cavalli e festosa gente in costume. Il nostro autista ci spiega che si tratta della processione per lo Shin Pyu, l’ordinazione dei novizi. I bambini birmani, vestiti come principini, rivivono le gesta del Budda e vanno a soggiornare, anche se solo per un breve periodo, in monastero. Spogliati dei vestiti regali e rasati (i capelli vengono sepolti in un panno bianco accanto ad una pagoda), i piccoli buddisti possono sperientare il più alto grado dell’esistenza umana, quella del monaco e, al contempo, i genitori acquisiscono il merito religioso di aver allevato non solo un bimbo ma anche un monaco. Io e Marco seguiamo con telecamera e macchine fotografiche l’allegra e multicolore processione e, senza volerlo, ne diventiamo una delle attrattive principali. Nelle campagne del Myanmar il turismo è difatti pressocchè sconosciuto e tutti, dai bambini agli adulti ci osservano e ci festeggiano come fossimo delle rock star!

Il lago Inle

Tutt’altra atmosfera si respira nella grande e movimentata Mandalay, città ricca di templi e monasteri. Dell’antico palazzo Reale, raso al suolo dai bombardamenti britannici durante la seconda guerra mondiale, resta però solo un’ immagine sbiadita: pilastri di cemento dipinto sostituiscono le colonne di teak, sui tetti di laminato bronzeo che riproducono malamente le antiche coperture d’oro, poggiano antiestetiche casette in legno bianco da cui, un tempo, guardie dotate di fionda scacciavano avvoltoi e altri uccelli malauguranti. Per fortuna, è sopravvissuto ai bombardamenti lo splendido monastero in teak di Shwe-nan-daw-Kyaung, trasportato nel 1880 fuori dalla cinta muraria del Palazzo.

Una donna al mercato di Bagan

Decidiamo quindi di visitare i dintorni di Mandalay, le rovine dell’antica Ava, i templi di Amarapura, le colline punteggiate di pagode di Sagaing e, soprattutto, l’idilliaco villaggio di Mingun che raggiungiamo in barca navigando sul placido fiume Ayeyarwady. Ci colpiscono la bianca pagoda di Hsin-byu-me con le sue cinque terrazze ad onda che riproducono Meru, la montagna sacra “centro del mondo” e poi l’intatta campana registrata nel Guinnes dei primati: ben 100 tonnellate di peso !

Il nostro viaggio di 26 giorni attraverso Myanmar si chiude nella splendida piana di Bagan, dove tra il 1000 ed il 1300 fiorì l’omonima città. Oggi vi sono solo alcuni villaggi disseminati tra oltre 2000 antichi edifici, pagode e monasteri in mattone o in pietra che ricoprono l’area di resti archeologici buddisti più grande del mondo, dichiarata Patrimonio Culturale dell’Umanità. Ci gustiamo dall’alto della pagoda di Shwe-hsan-daw, una delle poche che è consentito scalare, uno splendido tramonto, allettante anticipazione di quelli che potremmo ammirare navigando lungo il fiume Ayeyarwady che ci riporterà, lentamente, verso la capitale.

La magnifica piana di Bagan

di Claudia Meschini

foto Gianmarco Maggiolini