Il mio primo viaggio in Cina casualmente cade in occasione dei Settecento anni dalla morte di Marco Polo e nella mia città, ormai da mesi, si susseguono mostre, manifestazioni, eventi e di ogni tipo dedicati al viaggiatore e mercante veneziano (tra questi anche una grande avventura intrapresa da un mio amico: Venezia- Pechino in bicicletta, tre mesi on the road lungo la Via della Seta).
Ovviamente io non seguirò le orme di Marco Polo e sarà un aereo a portarmi direttamente nelle capitale, almeno questi sono i piani. In realtà in Cina ho rischiato proprio di non arrivare. Con preoccupazione osservo il tabellone che annuncia il ritardo di un’ora del volo da Venezia a Monaco e, con uno scalo già di breve durata, il pericolo è quello di perdere la coincidenza per Pechino, un pensiero che mette in affanno anche due pordenonesi, Barbara e Miriam che come me devono raggiungere la capitale della Cina per unirsi al loro tour organizzato. Per fortuna il terminal del volo di scalo è lo stesso di quello finale e riusciamo a salire a bordo senza neanche troppo affanno, un’ansia che invece mi coglie già la sera stessa quando, lasciati i bagagli nel mio hotel a Pechino, mi dirigo in taxi al vicino Tempio dei Lama, il più famoso tempio buddhista di Pechino, uno dei complessi sacri più grandi della Cina. Lo raggiungo che i battenti sono già chiusi e non mi resta quindi che optare per una visita alternativa, ovvero uno tra i numerosi hutong (dal termine mongolo “sentiero”) di Pechino, ovvero il caratteristico reticolo di viuzze fiancheggiate da negozietti di artigianato tradizionale, ristorantini per lo street food e casette basse con il tetto a spiovente.
Il mio obiettivo è raggiungere l’hutong di Yandaixie Street ma fermare al volo un taxi, cosa fattibile in ogni altra città del mondo, qui è un’impresa impossibile. I taxi vengono infatti prenotati con una delle innumerevoli App che la Cina ha deciso di inventare per complicarsi la vita. Dopo svariati e vani tentativi a salvarmi è un ragazzo che con sua madre è appena uscito dal Tempio dei Lama. Con estrema gentilezza e disponibilità il giovane cinese riesce a procurami una macchina che, gratuitamente, mi porta a destinazione al magico hutong di Yandaixie. Ed è in questo microcosmo prospiciente un canale, sulle cui acque placide si riflettono gli edifici pieni di luci colorate, che acquisto una miriade di souvenir tradizionali soprattutto piccoli quadri realizzati con carta intagliata di colore rosso, un’arte popolare vecchia di oltre mille anni, inserita nell’elenco del Patrimonio culturale immateriale dell’Unesco nel 2009. Innumerevoli i motivi decorativi dei fragili e sofisticati jianzhi, letteralmente ritagli di carta in lingua autoctona: simboli e auspici di prosperità, fiori, peonie soprattutto, il fiore nazionale cinese, pesci, simbolo di ricchezza, melograni, i 12 animali dello zodiaco cinese e, ovviamente, dragoni.
E’ solo grazie all’intervento di una dipendente di un ristorante del posto che, in serata, riesco poi a trovare un taxi che mi riporta in hotel, stanca ma soddisfatta e già con la mente proiettata alle visite della mattina successiva.
Con Daniel, la guida che mi accompagnerà in alcune escursioni, visito il Tempio del Cielo, supremo esempio dell’architettura Ming inserito in un enorme parco di 267 ettari a sud della città. L’edificio più sorprendente del complesso sacro, purtroppo invaso da una moltitudine di turisti per lo più autoctoni, è l’alto Tempio della Preghiera per un Buon Raccolto costruito nel 1420 quando Pechino fu scelta come capitale; un edificio che i geomanti di corte (coloro che praticavano l’arte divinatoria), identificarono come il punto d’incontro fra terra e cielo.
Dopo un rifocillante pranzo a base di anatra laccata al miele, per secoli un piatto consumato solo all’interno della corte imperiale (meglio noto come anatra alla pechinese), lasciamo Pechino in macchina per l’imperdibile visita alla Grande Muraglia Cinese, il colossale sistema difensivo imperiale che, come un enorme drago, si snoda su e giù per le montagne, attraversa deserti e praterie per una lunghezza totale di 211.9618 chilometri. Patrimonio Unesco dal 1987 e inserita nell’elenco delle sette meraviglie del mondo moderno, la Grande Muraglia è solo in parte restaurata e visitabile. Per fortuna ho optato per la sezione di Mutianyu (in cinese “valle da cui si ammirano i campi”), situata a circa 70 chilometri da Pechino evitando così la più vicina Badaling, centro dell’industria turistica locale, sezione della muraglia quotidianamente invasa da orde di turisti.
Raggiungiamo Mutianyu nel pomeriggio e, dopo essere risaliti con la funivia fino alla 14° torre di vedetta, dove incontriamo una coppia di sposi novelli immortalati in abito da cerimonia, iniziamo a risalire il sentiero, in parte a gradini, racchiuso da entrambi i lati da un parapetto merlato che un tempo consentiva ai soldati di scoccare le loro frecce contro i nemici. Nel verde e rigoglioso paesaggio si snoda la stupefacente opera architettonica che segue il profilo ondulato delle colline, arrampicandosi, a tratti, sui picchi circostanti. Senza quasi accorgermene riesco a raggiungere l’ultima torre di guardia, la 23° (ognuna è posta a circa 100 metri di distanza dall’altra lungo il percorso accessibile ai turisti) e dalla cima mi godo il paesaggio e la maestosità millenaria del progetto di ingegneria difensiva antica più imponente della storia dell’uomo. Altrettanto maestosa e stupefacente la Città Proibita che visito in autonomia il mattino successivo, un enorme insieme di edifici voluto dall’imperatore Yongle nel 1421 quando trasferì la capitale da Nanchino a Pechino.
Il complesso (980 costruzioni, con oltre 8700 stanze), non è costituito appunto da un unico imponente palazzo, come era consuetudine in Occidente (pensiamo a Bucking Palace o a Versailles) ma piuttosto da una serie di saloni (in gran parte ammirabili solo dall’esterno) e di edifici separati da stradine, varchi e “piazze” come una cittadina. Durante le dinastie Ming e Qing solo i familiari degli imperatori e gli ufficiali governativi avevano il diritto di entrare nella Città Proibita, mentre la gente comune veniva punita con la pena di morte se osava attraversare il perimetro dell’area fortificata. Oggi la Città è tutto fuorchè Proibita, anche se la corsa all’acquisto del biglietto scocca una settimana prima e la disponibilità si esaurisce in poche ore nonostante il limite sia fissato a 80mila!! ingressi giornalieri. I gruppi organizzati seguono prevalentemente la via centrale, dove si susseguono gli edifici più importanti, quindi io, prima di decidermi ad affrontare le orde di turisti, mi dedico agli altrettanto spettacolari palazzi dell’ala orientale. Ed è qui, tra i padiglioni della Città Proibita, che scopro un’usanza tutta social e tipicamente femminile cinese: prendere a nolo sfarzosi abiti tradizionali in stile imperiale da indossare nei luoghi iconici del Paese, non solo di Pechino (ne avrei in seguito incontrate a centinaia a Pingyao e a Xi’An) e farsi scattare foto nelle vesti di “principesse per un giorno” da condividere poi nel web. Terminata la visita della Città Proibita riesco, non senza difficoltà, a trovare all’uscita la mia guida che mi conduce al colorato ed esotico Tempio dei Lama alla cui visita non avevo rinunciato anche se antiche leggende narrano di sacrifici umani e di stranieri misteriosamente “spariti” dopo aver visitato il tempio.
E sarà sempre Daniel ad accompagnarmi, il giorno successivo, allo scenografico Palazzo d’Estate, una vasta residenza imperiale ricca specchi d’acqua, ponticelli, templi, padiglioni e sale, situata in un vasto parco prospiciente al lago Kumming che, a fine percorso, attraversiamo a bordo di un battello turistico. E’ tempo di lasciare Pechino e di raggiungere in treno la città di Datong. Prendere un treno in Cina è come salire a bordo di un aereo. Si mostra il passaporto e il biglietto elettronico all’ingresso, si procede al controllo sicurezza dei bagagli per poi accedere alle enormi sale di attesa dove i tabelloni luminosi (quasi sempre scritti solo in cinese), riportano gli orari dei treni in arrivo e in partenza. In realtà non è possibile sbagliare treno, come avevo temuto nei giorni antecedenti il mio viaggio in Cina, basta infatti controllare sul tabellone il numero del convoglio ferroviario, sempre preceduto da una lettera, l’orario di partenza e dirigersi, una volta aperto, al proprio gate. Dopo aver mostrato nuovamente il passaporto e il biglietto elettronico ad un addetto si può accedere al binario e salire sulla carrozza giusta, anche questa contrassegnata da un numero apposito.
Sono sufficienti meno di due ore per raggiungere Datong, città che dista circa 350 chilometri da Pechino, nel nord della Cina, meta scelta sia per il limitrofo Tempio Sospeso, edificio che ricorda l’eremo Tana della Tigre in Bhutan che avevo visitato nel 2019 prima della pandemia, sia per le grotte dei Buddha. Quest’opera eccentrica risalente al 1400 e ricostruita nel 1700 appare incollata alle pareti della roccia ad un’altezza di circa 50 metri dal suolo. Anche qui orde di turisti attendono non troppo pazientemente di percorrere lo stretto tunnel coperto che porta fino all’ingresso del monastero visitabile poi in meno di un’ora. Per fortuna l’attesa non dura più di 45 minuti e seguo l’orda lungo le passerelle ed i ponticelli in legno poggianti su pilastri fissati nella roccia per visitare i vari edifici e le piccole grotte del tempio decorate da alcune sculture, una delle quali rappresenta le tre dottrine: taoista, buddhista e confuciana. Le foto più scenografiche sono però quelle che ritraggono il tempio in lontananza, incastonato dalle pendici scoscese del monte Hengshan.
Dopo averne scattate una gran quantità mi lascio infine immortalare alla base dello stupefacente tempio (foto istantanea e cornice inclusa 5 euro) per poi dedicarmi ad un luculliano pranzo a base di gamberoni extra piccanti, una scelta culinaria che pagherò cara nei giorni successivi. Il pomeriggio lo dedico alla visita delle famose grotte di Yungang, 16 chilometri da Datong, tra i principali esempi di arte buddhista in Cina, ma anche un luogo di preghiera e venerazione come constato osservando i numerosi pellegrini che si mescolano ai turisti intenti a immortalare le statue con i loro smartphone. Un esercito di 40mila lavoratori, sotto la direzione di artisti buddhisti, ha scavato queste grotte che per secoli sono rimaste sconosciute al mondo e apprezzate solo dai devoti buddhisti. Delle 45 grotte presenti nel sito, contenenti complessivamente 51mila statue, visitiamo le principali, una dozzina, tra le quali la grotta 5 che accoglie un Buddha colossale alto 17 metri o la grotta 6, realizzata come un tempio, le cui pareti sono un tripudio di dettagli che narrano storie buddhiste e leggende indiane. Il giorno successivo, prima di lasciare Datong per raggiungere in treno la pittoresca Pingyao, visito in autonomia il monastero medievale di Huayan, un complesso che comprende innumerevoli templi, pagode ed edifici, tra i quali si distingue la stupefacente Sala di Mahavira, uno dei più grandi edifici templari della Cina (1560 mq) al cui interno sono raccolte 31 statue di creta del periodo Liao (916-1125) raffiguranti il Buddha ed alcuni bodhisattva, le persone destinate a conseguire l’illuminazione (bodhi) e a diventare quindi un Buddha.
Un’altra corsa in treno e raggiungo la stazione di Pingyaogucheng, 8 chilometri da Pingyao, Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco. Ad attendermi trovo un autista che in un quarto d’ora mi porta all’interno della città fortificata più autentica Paese, un vero e proprio gioiello soprattutto se vi si accede al buio, percorrendo le vecchie strade del centro storico, illuminate da centinaia di lanterne rosse. Lo splendore degli edifici eretti sotto le dinastie Ming e Qing fanno di questa località la meta che tutti ricercano, ma di rado trovano, in Cina, un Paese dove il turismo, soprattutto quello interno, raggiunge cifre che rasentano il parossismo. Per preservare Pingyao dai danni dell’overtourism senza regole, è stato introdotto da anni “l’obbligo” di acquisto di un biglietto cumulativo giornaliero del corso di 125 Yuan (circa 16 euro) che consente di visitare tutte le attrazioni della città, inclusa la famosa cinta muraria, interamente percorribile, che circonda la città. In realtà non si tratta di un ticket d’ingresso, come per la mia città, Venezia, difatti l’accesso a Pingyao è libero, ma chi, pur alloggiando uno o più giorni nella cittadina decidesse di non acquistare il ticket cumulativo (non esistono biglietti per attrazioni singole) potrà solo camminare per la città, fermarsi a mangiare nei ristoranti, acquistare souvenir ma non avrà accesso a nessun sito d’interesse, né al chiuso né all’aperto. Sta di fatto che in questo modo il turismo a Pingyao è diventato con il tempo più selettivo, certo non di nicchia, ma comunque certamente più culturale e rispettoso.
Attratta dalle centinaia di lanterne rosse che illuminano la notte di Pingyao, lascio subito il mio piccolo e suggestivo hotel, ricavato da una casa tradizionale per ammirare da vicino la città scelta nel 1991 come set di “Lanterne Rosse”, capolavoro del regista Zhang Yimou, un film che, oltre ad aver avuto il merito di lanciare la splendida Gong Li, ha ottenuto una candidatura ai Premi Oscar, vincendo anche un premio ai David di Donatello ed il Leone d’Argento al Festival di Venezia. Inizio di buon mattino il tour tra le case-museo di Pingyao, strutture originali caratterizzate da una simmetria e logica architettonica sopravvissuta al disastroso XX secolo che ha rischiato di spazzare via il tessuto storico della nazione. Una dopo l’altra visito i piccoli e raccolti edifici ad un solo piano che si affacciano sulle vie principali di Pingyao e poi il tempio dedicato a Confucio, il più grande filosofo sociale della Cina e l’elegante Torre cittadina svettante sulla via commerciale che attraversa la città per finire, nel tardo pomeriggio, con la lunga passeggiata sopra le mura: 6 chilometri punteggiati da 72 piccole torri di guardia (che rappresentano i 72 saggi) e da 4 bastioni.
Esco ancora la sera, al buoi, per ammirare gli edifici tradizionali e la Torre cittadina illuminata da lampioni e lanterne rosse, sicuramente uno spettacolo tra i più suggestivi visti durante il mio primo viaggio in Cina. La mattina dopo, prima di prendere il treno che mi porterà a Xi’An, continuo la visita delle case-museo di Pingyao che, di lunedì, sono per fortuna libere dal caos del weekend. Ad attendermi in serata a Xi’An questa volta non c’è l’autista (per risparmiare ho scelto di affidarmi ai taxi) ma un acquazzone torrenziale che per fortuna la mattina successiva è solo un ricordo e posso cosi visitare senza disagi una delle attrazioni principali della Cina, ovvero il sorprendente Esercito di Terracotta di Xi’An. Furono alcuni contadini intenti a scavare un pozzo a scoprire, per puro caso, nel 1974, la prima delle tre grandi Fosse contenenti l’Esercito, ovvero la guardia imperiale sepolta entro le mura esterne del mausoleo dell’imperatore Qinshi Huangdi. Complessivamente 8.000 guerrieri (il soldato più alto supera il metro e 80) e alcuni cavalli risalenti a 2000 anni fa, un’affascinante testimonianza di abilità artistica voluta, come espressione del potere imperiale, dall’imperatore che aveva avuto il merito di unificare la Cina.
Modellati in argilla e dipinti dopo la cottura (ma i colori sono ormai completamente sbiaditi), i soldati contenuti nella prima grande fossa, la più grande, sono suddivisi in ordinate fila separate da mura spesse 2 metri e mezzo. Ai miei occhi stupefatti queste inquietanti figure, i cui volti sono caratterizzati da espressioni diverse, appaiono come anime del Purgatorio in lenta processione. Un lungo camminamento circolare permette ai visitatori di osservare i guerrieri dall’alto ma, come al solito anche qui orde di turisti cinesi vocianti, e con il telefonino puntato pronto a scattare foto e a girare video, mettono a dura prova la mia pazienza. Devo anche io sgomitare senza troppa educazione per riuscire ad avvicinarmi alle bacheche in vetro che contengono le figure più belle e preziose tra le quali quella di uno splendido e altero generale che poi, per ricordo, acquisto in formato mignon fuori dal sito: il mio immancabile magnete, souvenir di viaggio. Ammirate anche le altre due Fosse (scoperte nel 1976 e nel 1994), l’autista, su mio suggerimento e relativa mancia, mi porta a visitare anche la Pagoda della Grande Anatra Selvatica, affascinante complesso templare sul quale svetta, tra giardini fioriti, la bella torre in mattoni che un tempo doveva contenere centinaia di volumi che l’emissario buddhista Xuan Zang (602-664 d.C), aveva raccolto in India.
Finalmente un bel tramonto (cosa molto rara in Cina vista la foschia di smog che l’attanaglia), mi fa particolarmente apprezzare la breve passeggiata sulle imponenti mura di Xi’An, impreziosite da 6000 merli e da una serie di pittoresche torri di guardia. Il giorno seguente, in libertà, mi dedico alla scoperta del pittoresco e variopinto quartiere musulmano di Xi’An, la cui strada principale, fiancheggiata da innumerevoli negozietti e chioschi di souvenir e di street food (noodles, spiedini di ogni tipo, ravioli, noci scaldate e salate in un’apposita macchina girevole e molto altro), si trova a soli 300 metri dal mio albergo. Dopo aver visitato le limitrofe Torre del Tamburo e Torre della Campana, mi addentro nell’intrico dei vicoli del quartiere dove vive la consistente popolazione islamica di Xi’An per raggiungere l’antica Grande Moschea della città, un’insieme di edifici costruiti secondo i canoni usati per i templi cinesi. Ed è qui, accanto ad una panchina in marmo dove siedono tranquilli due religiosi con il capo coperto dalla tradizionale shashia islamica, che ammiro un vaso di oltre due metri, in ceramica bianca e raffinati disegni blu cobalto. Nella mia valigia ce n’è uno molto più piccolo, e sicuramente meno prezioso, acquistato in un negozietto di Pingyao: un soprammobile (in realtà un contenitore per l’aceto nero dal sapore agrodolce che a Pingyao sostituisce la salsa di soia). Andrà andrà ad incrementare gli innumerevoli souvenir d’Oriente che affollano le mensole ed i mobili di casa mia.