Bali e Giava, due perle indonesiane

Ulun Danu Bratan

Fin dal primo giorno di escursione resto abbagliata dalla natura lussureggiante, di un verde ora profondo ora quasi fluorescente, che caratterizza tutta l’isola di Bali. Il giovane autista Indra mi accompagna a visitare una piantagione di caffè, immersa tra palme e alberi dal lunghissimo tronco, dove scopro il famoso caffè kopi luak, uno dei tipi di caffè più rari e costosi al mondo, prodotto con chicchi di bacche ingerite (e solo parzialmente digerite) e poi defecate dallo zibetto delle palme.

Una seduta in rami per la foto social alle risaie di Tegallalang

L’origine del kopi luak risale al XIX secolo, quando l’Indonesia era una colonia olandese ed ai lavoratori locali impiegati nelle piantagioni di caffè era vietato il consumo del prodotto. Per ovviare al divieto i braccianti iniziarono a recuperare, lavorare e consumare le bacche di caffè ingerite e defecate dal musang, un consumo che, più tardi, si estese ai colonizzatori olandesi che apprezzavano il sapore morbido ed il retrogusto di cioccolato e caramello di questo particolare caffè. Lasciata la piantagione pranzo in un magnifico ristorante affacciato sulle risaie di Tegallalang, appena fuori Ubud. A ridosso della distesa di ripidi terrazzamenti situati in una vallata circondata da fitta vegetazione verde e brillante, sono state collocate alcune altalene affacciate sul magnifico panorama. Versando un obolo i turisti possono farsi energicamente spingere sul dondolo (ce anche chi, per l’occasione, veste un colorato abito svolazzante preso a nolo sul posto) mentre un fotografo preposto immortala la scena che si trasformerà presto in foto e video postati sui social.

Risaie a terrazza di Jatiluwih

Per i turisti più intrepidi e avventurosi c’è anche la possibilità di osservare le risaie a volo d’angelo indossando un’apposita imbragatura, oppure da una bicicletta che, ancorata ad una corda d’acciaio, attraversa le risaie da un lato all’altro dell’avvallamento.

Sicuramente collocate in un contesto più genuino, meno social, sono le spettacolari risaie a terrazza di Jatiluwih, Patrimonio Unesco, che si estendono a perdita d’occhio in una posizione pianeggiante, attraversata da stradine facilmente percorribili. Passeggiando lungo il sentiero mi soffermo ad osservare una raccoglitrice con cappello a cono, china sulle prime piantine di riso che, disposte rigorosamente in fila, sono ormai quasi del tutto emerse a pelo d’acqua.

E’ dall’India che gli abitanti di Giava e Bali hanno appreso le tecniche di coltivazione del riso con il sistema delle terrazze irrigate sulle pendici delle montagne ed è sempre dall’India e dall’induismo che i balinesi hanno attinto il credo del grande ciclo delle reincarnazioni che, di trasformazione in trasformazione, conduce l’anima verso la pace celeste. Tutte le tappe del loro passaggio sulla terra sono quindi contrassegnate da riti destinati a tenerli costantemente sotto la protezione degli spiriti benefici, come appuro visitando un villaggio tradizionale dove un abitante/guida mi porge l’album fotografico dedicato alle colorate celebrazioni per l’ingresso nella pubertà del suo giovane figlio maschio.

Visitando il tempio Madre di Besakih

E’ impossibile contare i templi di Bali tanto sono numerosi, ogni insediamento ne possiede almeno tre, perfettamente inseriti nel contesto abitativo. Lo constato visitando il piccolo e curatissimo villaggio di Penglipuran con le sue basse casette costruite in pietra vulcanica, bamboo e legno, allineate lungo un’unica via centrale tra gli alberi di frangipane. Il mio sguardo incuriosito si poggia su una targhetta affissa su una facciata: “Anggota Keluarga – 6 uomini, 6 donne”, l’autista mi spiega che ogni abitazione viene contrassegnata con il nome del capo famiglia, in questo caso Anggota Keluarga, il numero e il sesso delle persone che coabitano. Non lontano dal delizioso villaggio di Penglipuran visito il tempio Madre di Besakih, il più significativo di Bali, un magnifico complesso composto da 23 templi correlati tra loro. Vi accedo risalendo la maestosa scalinata in cima alla quale svetta l’imponente portale a due battenti tipico dell’architettura balinese, un elemento diffusissimo che ha il suo apice nella celeberrima Porta del Paradiso antistante il bellissimo tempio di Lempuyang dove, qualche giorno dopo, vivo un’esperienza quasi surreale, ma estremamente divertente.

Lempuyang

Alla biglietteria all’ingresso, prima dell’ultima salita che conduce al tempio e alla Porta dietro la quale si apre una vista spettacolare sul vulcano Agung e sulle campagne circostanti, mi viene fornito insieme al biglietto d’ingresso anche un numero, il 460. Chiedo delucidazioni e mi viene spiegato che per avere la serie di scatti fotografici in diverse pose davanti alla Porta del Paradiso dovrò pazientemente attendere il mio turno sotto alle tettoie per ripararmi dal sole a picco. Ci sono infatti ben 459 persone prima di me in lista. Sono infatti centinaia ogni giorno, soprattutto in alta stagione, le persone che raggiungono la Porta del Paradiso per farsi scattare la foto “portafortuna” da postare sui social che li ritrae davanti al Portale in pietra, un’immagine iconica creata ad arte da abili fotografi che, incaricati della mansione, pongono uno specchietto davanti all’obiettivo del cellulare del turista di turno creando la suggestiva illusione di uno specchio d’acqua ai piedi della Porta del Paradiso.

Il retro della Porta del Paradiso

La “fissa” per le immagini social la ritrovo non solo nel punto panoramico sovrastante i laghi gemelli di Tamblingan e Buyan, dove è possibile farsi fotografare in compagnia di una enorme iguana, di un pitone o di una volpe volante, ma anche al celebre Ulun Danu Bratan, il leggiadro tempio che sorge su una minuscola penisola adiacente alla riva del lago Bratan, a circa 1200 metri d’altezza.

Risalente alla metà del 1600, Ulun Danu fu eretto per celebrare l’importanza del lago Bratan che, grazie alle sue acque, irriga tuttora gran parte della zona centrale di Bali. La bellezza sia del tempio induista che del luogo è indiscutibile, decisamente discutibili sono invece le sedute a forma di cuore poste fronte lago che consentono una foto “incorniciata” oppure i portali dove è possibile farsi ritrarre indossando principeschi abiti balinesi d’altri tempi.

Adiacenti o sull’acqua sono anche altri due templi che visito durante la mia vacanza a Bali. Eretto su un promontorio scolpito dall’erosione, che l’alta marea trasforma in isola, il tempio di Tanah Lot è uno dei tanti santuari marini consacrati agli spiriti guardiani del mare (in un anfratto è possibile fotografare e toccare i serpenti “sacri”), Ulawatu sorge invece in cima ad una scenografica scogliera affacciata sull’oceano. L’area è permanentemente abitata da scimmie dispettose con la tendenza a strappare dalla testa gli occhiali ai malcapitati turisti che si affacciano al muretto che corre lungo il promontorio per ammirare lo spettacolare panorama.

Tanah Lot

Ed è qui a Ulawatu che mi fermo ad assistere, nella piccola arena affacciata sull’oceano, alla tradizionale danza del fuoco, uno spettacolo turistico e occidentalizzato ma che affonda le sue radici in un rituale pre induista usato contro la peste.

Le mie giornate alla scoperta di Bali, questo piccolo eden verde smeraldo punteggiato da cascate e circondato dall’oceano, proseguono in un susseguirsi di entusiasmanti scoperte. Visito quel che resta dell’antico palazzo reale di Taman Tirta Gangga, un’area idilliaca caratterizzata da ponticelli in metallo scolpito, laghetti ornamentali, giochi d’acqua e da una grande vasca centrale nelle cui acque, punteggiate da fiori di loto e da piccole statue in pietra scolpita, guizzano enormi carpe koi rosse, bianche o maculate. Come tutti gli altri turisti presenti mi diverto a percorrere una sorta di labirinto sull’acqua costituito da una serie di stele in pietra, poste poco distanti l’una dalle altre a filo d’acqua. Ancora più divertente, sia pur non esente da qualche brivido, l’attraversamento del famoso ponte con fondo di vetro, costruito sotto la supervisione di un’azienda cinese, che ha già realizzato opere simili in tutto il mondo. Lungo 199 metri, il ponte trasparente attraversa il fiume Petanu, correndo sopra una gola a 40 metri di altezza. Munita di copri calzature in panno, fornite dall’organizzazione a protezione della superficie trasparente, mi avventuro, non senza qualche batticuore, lungo la striscia trasparente da cui è possibile godere di una vista mozzafiato sulla natura sottostante.

Il ponte con fondo di vetro

Per rendere ancora più adrenalinica la sensazione di camminare sul nulla, i creatori del ponte hanno nascosto lungo il percorso alcuni trucchetti visivi e sonori: finti scricchiolii del vetro che si spezza e altrettanto fasulle “ragnatele” e crepe che, apparentemente, si aprono sotto i passi incerti dei visitatori. Sicuramente più spirituale e storicamente interessante la visita del sito di Gunung Kawi, famoso per le tombe reali, i candi, monumenti incassati nella roccia alti sette metri che, secondo la leggenda, sarebbero stati scavati dal gigante Kebo Iwa in una sola notte con le unghie. Quasi sacra l’atmosfera che si respira nel vicino santuario edificato accanto alla leggendaria sorgente di Tirta Empul, le cui acque conservano la fama di essere dotate di poteri magici. Decine di uomini e donne, in gran parte turisti, dopo essere entrati in ordinata fila nella grande vasca in pietra dove sono canalizzate le acque sacre provenienti dallo stagno sacro, compiono abluzioni e bagnano il proprio capo sotto le cascatelle gorgogliati purificando così il proprio karma.

Tirta Empul

Prima di lasciare Bali, l’unica isola indonesiana che l’Islam non abbia conquistato e l’ultima, nel tempo, ad aver sperimentato la colonizzazione occidentale, dedico una giornata in libertà alla visita della cittadina di Ubud, nell’entroterra balinese, dove risiedo ormai da una settimana: mi perdo nell’immenso mercato artigianale al coperto, uscendone con decine di souvenir, visito Ubud Palace, il palazzo reale, ricostruito quasi per intero dopo il terremoto del 1917, resto abbagliata dalla bellezza autentica del palazzo acquatico, un edificio estremamente pittoresco, fotografo i piattini di fibra vegetale su cui poggiano le piccole offerte di cibo e fiori per gli dei, mi rifocillo, infine, pranzando in un ristorante frequentato da balinesi prima di dedicarmi ad un refrigerante pomeriggio in piscina. Da piccolo villaggio a trafficata cittadina, Ubud ha accresciuto il suo appeal turistico dopo l’uscita del best seller “Prega, mangia, ama”, romanzo biografico dell’americana Elisabeth Gilbet, diventato poi un film con Jiulia Robets e Javier Bardem.

Vistando il palazzo acquatico di Ubud

E’ qui, ad Ubud, che Elisabeth (Jiulia) guidata da un vecchio sciamano riesce a trovare, non solo il suo equilibrio interiore, ma anche l’amore e la felicità. Ma Ubud, a parte le suggestioni letterarie e cinematografiche, è anche nota come città dell’arte e delle gallerie (anche se in realtà attualmente ce ne sono poche e fin troppo turistiche). Il pittore Walter Spies fu il primo a stabilirsi a Ubud, alla fine dell’800, trascinando sulla propria scia altri artisti e influenzando l’evoluzione dell’arte balinese. Le rigide regole che costringevano a trattare soltanto soggetti di ispirazione religiosa o mitologica si allentarono a poco a poco fino a dar vita a quelle immagini vitali e coloratissime che caratterizzato l’attuale arte pittorica balinese.

Lascio Bali a bordo di un traghetto che in meno di un’ora mi porta a Giava. Qui è tutto diverso rispetto a Bali, non soltanto la vegetazione lussureggiante ha lasciato il posto ad una natura più brulla, a tratti quasi arida, ma anche l’atmosfera è radicalmente cambiata, scivolando nella severa cultura islamica che caratterizza quest’isola punteggiata da innumerevoli vulcani.

Vulcano Bromo

Per gli abitanti dell’Indonesia il vulcano rimane un dio terrificante e, per placare la furia divina, oggi come ieri, negli angoli più remoti dell’arcipelago (che conta complessivamente 628 crateri di cui oltre 120 in attività), si rinnovano le cerimonie e le offerte. Ma i vulcani sono anche il grande dio benefattore del Paese, colui che con le sue lave trasformate in terreno fertile, ha permesso lo sviluppo di meravigliose risaie. Protagonisti di miti e legende e, secondo antiche credenze popolari, abitati da spiriti e divinità, i vulcani sono oggi anche un’imperdibile meta turistica. Mi sveglio alle 2.30 di notte per recarmi nell’area che offre diversi punti panoramici affacciati sulla vasta caldera da cui emerge il cono del Bromo, circondato da crateri ormai spenti e vaporose nuvole soffuse. Insieme ad altre decine di turisti, che come me hanno sfidato il buio ed il freddo per risalire le scoscese pendici affacciate sull’avvallamento, attendo l’alba che, improvvisamente illumina di mille colori e sfumature, il paesaggio lunare aperto dinnanzi ai nostri occhi.

Pramabanan

Quando i raggi accendono il cielo di arancione, rosa e giallo e la caldera si anima come d’incanto, mi alzo dal ramo su cui sono seduta per meglio imprimere nella mia mente e fotografare uno spettacolo della natura che non ha uguali: l’entusiasmo contagia tutti i viaggiatori, ci sembra quasi di essere su un altro pianeta. L’autista che mi attende poco lontano dai punti panoramici mi conduce quindi nella vasta area della caldera dal fondo ghiaioso che percorro in parte a piede in parte a dorso di cavallo sino a raggiungere i 230 gradini intagliati nel camino centrale che consentono la scalata al vulcano. Contro le mie previsioni riesco agilmente a raggiungere la vetta, scatto foto al cratere da cui fuoriesce fumo e odore di zolfo e mi lascio soggiogare dal panorama mozzafiato (in tutti i sensi, anche letterale) che si gode dall’alto dei 2.302 metri del Bromo. Il mio viaggio alla scoperta di Giava prosegue nei giorni successivi con la visita di Pramabanan, Patrimonio Unesco del 1991, un imponente complesso di santuari dedicati alle supreme divinità induiste (Brahmā, Visnù e Shiva) e di Borobudur, il più grande edificio buddista del mondo.

Borobudur, gli stupa sulle terrazze circolari

La magnifica piramide a gradoni, le cui facciate sono decorate da 1460 bassorilievi che, messi in fila, raggiungerebbero una lunghezza di sei chilometri, fu abbandonato nel 950 restando per nove secoli immerso nella vegetazione tropicale. A ritrovare Borobudur fu, nel 1814 Sir Thomas Stamford Raffles, il primo governatore britannico ad avere un interesse per le antichità. Ci vollero un mese e il lavoro di 200 operai per compiere quella che sarebbe stata considerata la più importante scoperta archeologica del sud est asiatico, pari solo al ritrovamento, 50 anni dopo, dei tempi di Angkor in Cambogia. Risalgo la scalinata e mi aggiro a lungo tra le terrazze circolari ornate da 72 stupa forati a forma di campana, che racchiudono altrettante statue del Buddha. Attendo che le soffuse luci del tramonto illuminino con raggi dorati la verdeggiante piana sottostante il tempio per poi tornare a Yogyakarta, la bella città giavanese dove alloggio.

Visitando il Tamari Sari

Dominate dall’imponente cono del vulcano Merapi (2.900 metri d’altezza), le terre vulcaniche di Yogyakarta furono percorse dalle grandi correnti di civiltà provenienti dall’India e, successivamente, dall’Islam. Oggi la capitale culturale di Giava offre varie attrazioni turistiche. Visito il Kraton, comunemente chiamato Sultan Palace, risalente al 1757, caratterizzato da sette cortili lungo i quali sono disposti alcuni padiglioni traboccanti di oggetti, in particolare strumenti musicali, il mercato degli uccelli e lo scenografico Tamari Sari, antica residenza di piacere dei sultani. E’ quest’ultimo il luogo che più mi attrae, con il suo magnifico portale intagliato, i mascheroni decorativi, le vasche e le fontane gorgoglianti d’acqua, un’oasi di pace a ridosso della quale si è insediato ormai da tempo un pittoresco villaggio brulicante di piccoli fabbricati decorati da murales, dove acquisto un batik decorativo in cotone, il prodotto indonesiano tipico per eccellenza. I disegni, che racchiudono simboli dai poteri taumaturgici, vengono realizzati utilizzando una sorta di penna stilografica in rame e bambù da cui fuoriesce la cera bollente che va a ricoprire le parti di tessuto che non devono essere tinte. La tecnica del batik tradizionale, con cui si realizzano quadri in stoffa, borse abiti, scialli, parei e quant’altro, è dal 2009 patrimonio intangibile dell’Umanità Unesco. Prima di lasciare l’Indonesia con un volo da Giacarta, capitale che oggi annovera 23 milioni di abitanti affogati nel traffico e nello smog, visito il Museo Nazionale istituito nel 1778, un’immensa collezione di statue, bassorilievi e oggetti rituali provenienti da diversi siti del Paese e il Sea Worl Ancol il grande acquario di Giacarta, famoso per la vasca degli squali ed il tunnel subacqueo.

Visitando il Tamari Sari

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Agenzie in loco

Per Bali: www.bali-lombok-gili.de/

Per Giava: www.kakadujavatour.com 

di Claudia Meschini