Partecipare ad una serata di diapositive, scattate in viaggio da amici o parenti può essere a volte un vero e proprio supplizio: decine di immagini ci scorrono davanti agli occhi, incomprensibili e lontane, opaca brutta copia di una realtà descritta con toni entusiastici. Ma proprio quell’entusiasmo, quella calorosa euforia, può far risvegliare in noi il desiderio di vedere di persona luoghi mortificati da foto a volte insignificanti e prive di grandi suggestioni. Tra le diapositive norvegesi, scattate dal mio amico Massimo e dai suoi compagni di viaggio, il Preikestolen non c’era.
Ma, ormai, dentro di me la curiosità era già sbocciata. Del Preikestolen avevo, invece, un’immagine spettacolare, racchiusa in un libro acquistato dai miei genitori ai tempi lontani della nostra permanenza in Svezia. A farmi partire per un viaggio itinerante In Scandinavia, da Copenaghen, in Danimarca a Bergen, in Norvegia, è bastata quell’immagine. Ma cos’è il Preikestolen, il “pulpito” come lo chiamano in Norvegia ? E’ un “balcone” naturale, una rupe selvaggia che sovrasta, dall’alto dei suoi 520 metri, il sottostante azzurro nastro di Lysefjord. Partendo dalla città Stavanger, nella zona dei fiordi occidentali, si giunge in battello ai piedi del Preikestolen e da lì inizia un trekking di un paio d’ore. Volendo, la salita al pulpit rock può essere effettuata anche a cavallo. Sandra, la mia compagna di viaggio, è più veloce di me, e molti altri casuali compagni di gita mi oltrepassano durante l’accidentato cammino. Mi fermo a guardare i piccoli cespugli di un giallo ocra vivissimo, che punteggiano le zone pianeggianti, i lunghi e lisci tronchi dei sottili alberi del nord, le maculate betulle, i pini scuri, cresciuti attorno a rocce stranamente rotonde e levigate. Ascolto l’improvviso avvicinarsi di una fresca sorgente d’acqua, mi fermo all’apparire di un laghetto cristallino, incastonato tra rocce nere e zolle di terra bagnata, su cui cresce un’erba corta, fitta e luminosa. Il cielo opalescente di quella mattina estiva, è di un bianco latteo, screziato d’azzurro pallido. Ne nuvole, ne uccelli lo attraversavano. Poi, senza alcun preannuncio, se non una folata più forte di vento, si scurisce appena, lasciando cadere poche e rade gocce di pioggia che sembrano quasi non bagnare le cose, evaporando ancor prima di toccare terra.
La pioggia scompare dopo pochi attimi, con la stessa velocità con cui è venuta, lasciando qualche ricamo scintillante su un sasso, una foglia, un fiore delicato, e impregnando l’aria di un nuovo odore umido e inebriante, così piacevole da respirare. Scatto alcune foto, ma sento che il bello sarebbe venuto solo dopo, in cima al Preikestolen. Chiudo i capelli in una treccia, temendo che i riccioli mossi dal vento, ondeggianti davanti agli occhi, m’impediscano di abbracciare completamente il paesaggio, nascondendomene qualche particolare. Voglio che il mio sguardo, e poi la mia memoria, possano trattenere tutto ciò che in quel momento mi circonda. All’improvviso, annunciato da un ragazzo tedesco che proviene dalla direzione opposta alla mia, si staglia sull’iridescenza del cielo, il possente roccione, una terrazza naturale inverosimilmente piatta, sporgente sull’acqua azzurra del fiordo. Da ogni lato si scorgono, immersi in una impalpabile e luminosa foschia estiva, i fianchi ripidi delle montagne, svettanti sulla valle scavata da antichi ghiacciai, ora sommersa dalle acque marine di una limpidezza fresca e cristallina.
Sandra è già sulla cima dello sperone roccioso, la raggiungo con passo veloce, quasi senza prestare attenzione a dove metto i piedi. Mi sento trascinata da un senso assoluto di libertà, di entusiasmo infantile. Non ho mai visto prima uno spettacolo così violentemente bello. La rupe grigia, a picco sul fiordo, pare esistere solo per essere ammirata con rispettoso stupore, sembra essere la fatale meta di un pellegrinaggio alla ricerca dell’espressione più pura, rara e superba della bellezza. Chissà quanti prima di me sono saliti su quella montagna che nasce dal mare. Quanti vi sarebbero saliti dopo. Lei ci sarebbe sempre stata sempre, immutabile e perenne. Senza provare paura o vertigine, mi avvicino allo strapiombo e, inginocchiandomi quasi sull’orlo, abbasso la testa facendo scivolare lo sguardo sull’acqua che, quasi 600 metri più in basso, assomiglia ad un immenso nastro verde-azzurro, mosso dal vento. Mi adagio lentamente per terra, contro la roccia dura, ammorbidita dal muschio ancora umido di pioggia, mentre il vento, particolarmente forte in quella zona non protetta dagli alberi, mi avvolge completamente. E sento di avere sete.
Tante mete turistiche sono purtroppo deturpate dalla presenza dell’immancabile chiosco per il panino o la bibita, del banchetto di souvenir. Ma in nord Europa questa usanza nefasta è, per fortuna, ancora poco praticata. Almeno per il momento. Nelle vicinanze del Preikestolen c’è solo un baracchino in legno, raggiungibile salendo una ripida scaletta incastonata nella roccia. Un luogo di ristoro estremamente discreto. Poche assi nascoste tra il verde, umili, quasi timorose di rovinare con la propria presenza la selvaggia bellezza del luogo. Nel lasciare il pulpit rock, non mi volto indietro a guardare, non voglio vedere rimpicciolirsi, offuscarsi il maestoso “balcone” svettante sull’acqua, voglio ricordarlo in tutta la sua grandiosa e spettacolare imponenza. La discesa è per me più veloce e disinvolta della salita, non sento la stanchezza, ne il sudore che mi appiccicava addosso la maglietta. Il Preikestolen è stato il mio primo, straordinario incontro con la bellezza assoluta. La prima iniezione di una droga, benigna e soave, dalla quale non mi sono più liberata e dalla quale spero di non liberarmi mai.
Ho voluto iniziare da questo ricordo, ancora indelebile, il racconto del mio viaggio in Scandinavia iniziato a Copenaghen, la capitale danese dove sarei tornata 28 anni dopo, tappa intermedia del mio viaggio in Islanda. Tra le più piacevoli capitali europee, da girare tutta comodamente a piedi, (il centro è tutto compreso in un’area di circa 3 chilometri per 2 di larghezza massima), Copenaghen è forse la più allegra tra quelle del nord Europa.
E lo dimostra anche l’allegro caos e l’euforia contagiosa con cui, in occasione della mia più recente visita alla città, ho vissuto la semifinale dell’Europeo di calcio, vinto poi dall’Italia. Per assistere alla partita scelgo la zona pedonale di Nyhavn, il vecchio e pittoresco quartiere dei marinai. Il canale, sulle cui acque scorrono vecchie e nuove imbarcazioni, è fiancheggiato da tipiche case settecentesche dai mille colori, qui, nel mio viaggio di gioventù, avevo trascorso con Sandra innumerevoli serate a bere birra e ad ascoltare la musica che, come onde, usciva dai locali: il rock dei Guns’n Roses, le ballate popolari danesi e il karaoke. Il nostro gruppo preferito erano i B.Joe che, in più di un’occasione, siamo andate ad ascoltare in un disco bar. A Nyhavn, 28 anni dopo, conosco Martina, giovane cagliaritana in vacanza a Copenaghen e con lei assisto alla partita, prima in un pub dove ci sono solo tifosi spagnoli e poi, per il secondo tempo, nel limitrofo ristorante a gestione italiana ben più chiassoso. Caroselli e cori di tifosi si spostano poi nella Radhspladsen, la vasta piazza del municipio, che risplende nella notte grazie alle innumerevoli luci in movimento che illuminano le facciate dei suoi edifici.
“Avete solo il gazpacho!!!” gridano euforici i tanti ragazzi italiani che si sono radunati, tra bandiere e maglie azzurre, nella piazza lambita dall’Anderssen Boulavard, oltre il quale si trova l’ottocentesco Tivoli, uno dei più noti parchi divertimento europei. Nell’euforia generale di quei giorni (anche la Danimarca ha raggiunto la semifinale), viene coinvolta anche la celeberrima Sirenetta delle fiabe di Andersen, la statua in bronzo a cui un vandalo nel 1964 segò la testa, poi rifatta sulla base dei disegni originali. Un fotografo le ha posato infatti sulle spalle una bandiera danese per scattare alcune foto nell’attesa della sfida tra la Danimarca e l’Inghilterra.
La piccola statua che guarda il mare da uno scoglio, è stata, 28 anni prima, il mio primo impatto con Copenaghen e la Danimarca. Opera dello scultore Edvard Eriksen, raffigura la fanciulla con la coda di pesce che, nella fiaba di Andersen, scelse di morire e di essere trasformata in schiuma marina pur di non dover uccidere il suo amato principe. Sulla sponda della Langeline io e Sandra giungiamo la sera stessa del nostro arrivo in città, dopo aver lasciato i bagagli in un ostello gigantesco, ricavato all’interno di un ex stadio. La soluzione economica dell’ostello ha contrassegnato i miei primi viaggi itineranti, ma di così miseri come lo “Sleep – In 92”, in seguito, ho avuto la fortuna di non vederne più. Camerate suddivise da pareti in compensato, letti a castello multiplo, privacy inesistente e un loculo con chiave come deposito bagagli. All’entrata, un’ampolla di vetro contenente una miriade di preservativi in versione gratuita e self service.
Dopo una sola notte trascorsa allo “Sleep – In 92”, ci trasferiamo in un ostello più chic: sei persone per camera con bagni e docce equamente divisi tra uomini e donne. Ricordo ancora l’enorme imbarazzo quando una mattina, sovrappensiero, sbaglio doccia, infilandomi decisa in quella maschile. Un ragazzo dai lunghi capelli, nudo e disinvolto, mi saluta cortese, continuando imperterrito a pettinare la chioma bagnata. Tra le nostre compagne di stanza c’era una signora americana. Il corpo minuto e atletico, sempre in scarpe da ginnastica e calzoncini corti. Poteva avere tra i 45 ed i 50 anni. Un giorno si presenta disperata alla reception. Aveva dimenticato alla stazione dei bus la borsa con la macchina fotografica e tutti i rullini scattati in viaggio. Scopriamo così che aveva attraversato l’Europa, e ormai, dopo oltre sei mesi di lungo vagabondare, stava per ripartire verso l’America. Piangeva disperata la signora. Quelle foto erano tutto il suo viaggio, la memoria dei posti visitati, delle persone conosciute lungo il cammino. Non si sa come, ma dopo alcune ore e decine di telefonate la borsa è stata ritrovata, integra, dalla polizia (forse qui non sarebbe mai successo).
Ventotto anni dopo raggiungo la Sirenetta attraversando il Kastellet, l’antica cittadella seicentesca voluta dal re Federico III per difendere il porto dagli attacchi svedesi. Delle originari costruzioni sono rimaste una parte delle fortificazioni circondate da un doppio fossato e da un camminamento nel verde. Ed è proprio il verde, la natura ben curata, a caratterizzare Copenaghen. Il Giardino Reale in cui è immerso il castello di Roseborg, è un enorme parco all’inglese celebre per la fioritura primaverile di Crochi, che disposti a disegni geometrici, formano un caratteristico tappeto di colori. In estate, tra l’erba ben tosata “brucano” placide grosse anatre. Iniziato nel 1606 e concepito come residenza di riposo, il Castello di Roseborg custodisce oggetti preziosi, suppellettili, costumi storici appartenenti alla Casa Reale, oltre al trono dell’incoronazione e agli splendidi gioielli della corona appartenuti a Cristiano IV e a Cristiano V. Altrettanto suggestivo il seicentesco castello di Frederiksborg che sorge in scenografica posizione su tre isolotti in mezzo a un lago nella cittadina di Hillerod. Lo visito sia in occasione del mio primo viaggio in Danimarca che durante il secondo, la prima volta io e Sandra raggiungiamo il vicino borgo in macchina, accompagnate da un giovane danese che la mia esuberante amica riesce, con nonchalance, a coinvolgere nella gita, 28 anni dopo, è invece un treno locale a portarmi nella caratteristica cittadina situata a circa 30 chilometri a nord di Copenhagen.
Il mio primo viaggio nel Nord Europa prosegue con un volo che porta me e Sandra ad Oslo, capitale della Norvegia situata in magnifica posizione, alla fine dell’Oslofjord. Per secoli Oslo rimase un piccolo villaggio denominato Cristiana, nome impostole nel 1624 dal re danese Cristiano IV.
Oggi la capitale è una grande città moderna che ho però apprezzato soprattutto per le sue bellezze storiche, come il Vikingskipene, la “casa” delle grandi navi vichinghe ed il museo del Kon-Tiki, costruito nel 1957 per accogliere il Kon-Tiki, una fragile zattera in legno di balsa simile alle imbarcazioni degli Inca del VII secolo. Fu usata nel 1947 dall’antropologo ed esploratore Thor Heyerdahl per il viaggio che lo portò da Callao (Perù) a Raroia (Polinesia).
Heyerdahl era convinto che la civiltà della Polinesia fosse, in parte, di origine americana e non soltanto asiatica: cercava pertanto un itinerario che ripercorresse quello fatto dai primi colonizzatori delle isole del Pacifico. Dopo 101 giorni di navigazione Thor ed il suo equipaggio, composto da cinque uomini e un pappagallo, s’incagliarono tra le rocce dell’atollo polinesiano, dimostrando così che gli Inca del Sud America avrebbero potuto raggiungere le isole del Pacifico con una zattera in legno. Nel 1948 l’esploratore scrisse un libro dedicato alla sua impresa, tradotto in oltre 70 lingue, che vendette decine di milioni di copie. Nel 1950 Heyerdahl girò anche il documentario Kon-Tiki, basato sulle riprese fatte dall’equipaggio durante il viaggio. Il film vinse, nel 1951, l’Oscar per il migliore documentario. Da piccola, quando vivevo in Svezia, mio padre mi aveva regalato un modellino in legno del Kon-Tiki. Tra un trasloco e l’altro quel fragile modellino era andato perduto, ma lì, nel Kon-Tiki Museet di Oslo ho rivisto la zattera in miniatura della mia infanzia. Ed era immensa.
Ricco di storia e di antiche suggestioni è anche il Norsk Folkmuseum, il parco che accoglie il museo del folclore, ovvero la ricostruzione di un antico villaggio tramite 150 edifici provenienti da ogni parte della Norvegia, appartenenti ai secoli XVIII-XIX, tra cui varie case ricche di oggetti di uso comune. La splendida chiesa in legno, risalente al XII secolo, proviene da Gol ed è ornata da affreschi del 1652. Ma il Norsk Folkmuseum è solo uno dei tanti parchi della città, veri e propri musei all’aperto, dove natura e arte creano piacevolissimi sfondi per semplici passeggiate. Il Frogneparken, il più celebre di tutta la Norvegia, è nato da un’idea dello scultore Gustav Vigeland che in quest’opera ha voluto concentrare tutto il suo amore per l’arte e per la vita, realizzando 150 gruppi scultorei incentrati sul tema dell’esistenza umana.
Il pezzo più celebre, che mi fa da sfondo in una foto, è il Monolito (1925), obelisco di granito alto 17 metri, assediato da figure umane che tentano di risalirne la superficie.
Lasciamo Oslo a bordo di un treno in una notte piena di stelle e illuminata da una luna piena enorme per raggiungere le bianche casette in legno che caratterizzano Stavanger, cittadina che si sviluppa su una penisola immersa nel verde. Qui acquistiamo una crociera di tre ore lungo il Lysefjord, per ammirare dal basso il Preikestolen, la cui scalata affrontiamo il giorno successivo partendo la mattina prestissimo in traghetto per raggiungere poi in bus la base di partenza del trekking. L’esperienza vissuta al pulpit rock ci lascia un po’ frastornate tanto che perdiamo l’ultimo autobus per raggiungere il traghetto e tornare a Stavanger. Non c’è per noi altra alternativa che bussare ad una delle pochissime abitazioni presenti alla base del Preikestolen e chiedere di usare il telefono per chiamare un taxi che venga a “salvarci”.
Ultima tappa del nostro viaggio in Norvegia è Bergen, con il suo famoso porto caratterizzato da una linea di case in legno variopinto di origine medievale. La cittadina è il punto di partenza per le crociere nello spettacolare Sognefjord, il fiordo punteggiato da innumerevoli cascate che scendono, tra il verde, dalle rupi di granito scuro. Girare per Bergen è piacevole e rilassante e vi trascorriamo gli ultimi giorni della nostra vacanza prima di tornare a Copenaghen e da lì a Venezia. Giriamo la mattina tra i banchetti del mercato del pesce di piazza Torget dove, anche a colazione, si può mangiare la polpa morbida e saporita del granchio poro. Qui conosciamo la “sposa andalusa”, un’ esuberante spagnola che per amore di un bel vichingo dei nostri tempi si è trasferita in questa cittadina all’estremo nord dell’Europa. La ragazza vende la testa dell’animale già aperta e preparata e nel porgerti quella leccornia a basso costo (una delle poche cose che in Norvegia hanno un prezzo ragionevole), infila nella polpa profumata un cucchiaino di plastica. Sono solo le dieci della mattina, l’ora del cappuccino con brioche, ma il sapore meraviglioso di quel granchio mi sembra migliore di quello di qualsiasi dolce. Anche il gusto del primo wurstel danese, gustato a Nyaven a Copenaghen, in uno dei tanti chioschi Tulip è stato per me un’epifania.
Quel sapore, quasi dimenticato, come la famosa madeleine per Proust, mi ha rituffato nella Svezia della mia infanzia, quando nel parco innevato di Skansen, io e mio fratello chiedevamo ai nostri genitori di comprarci i wurstel arrostiti direttamente sul fuoco. Una ragazza gentile porgeva nella manina di mio fratello il bastoncino di legno con in cima la gustosa e sottile salsiccia che io poi accostavo al braciere, inspirandone il profumo fragrante e affumicato mentre cuoceva lentamente.
di Claudia Meschini