Perdere tre aerei in due settimane di viaggio. L’impresa, non indifferente, mi è riuscita durante il mio, peraltro, bellissimo viaggio alla scoperta del Perù, paese che conserva il maggior numero di siti storici del Sudamerica, tra questi non solo Machu Picchu, la famosa “città perduta degli Inca”, ma anche una sorprendete varietà di templi, tombe, piramidi, risalenti fino a 4000 anni prima dell’avvento degli Inca, la tribù che regnò sul più grande impero del Nuovo Mondo.
Ho la passione di girare film amatoriali che documentano i luoghi visitati e, nei tempi morti del viaggio, cancello le scene venute male o superflue. Ero così presa dal mio “taglia e cuci” all’aeroporto di Arequipa, in attesa del volo che mi avrebbe portato a Cusco, da non accorgermi dell’apertura del check-in. Primo aereo perso. Per fortuna una magnanima hostess, vedendo la mia sincera disperazione, mi accorda un biglietto gratuito con partenza due ore dopo. Più rocambolesca la perdita del secondo e del terzo aereo, entrambi nella stessa giornata. Un problema riscontrato nel bagno dell’aereo che da Cusco mi avrebbe portato a Lima, scalo obbligatorio per raggiungere la coloratissima Trujillo, ha fatto perdere a me e a molti altri passeggeri le diverse coincidenze. Anche in questo caso, rispetto ad altri viaggiatori che non sono riusciti a partire per le proprie destinazioni fino al giorno successivo, sono stata molto fortunata. Il mio nuovo volo diretto alla città costiera nel nord del Perù, è infatti partito meno di due ore dopo. Ammazzo l’attesa al bar, gustandomi l’ennesima ottima empanada, il fagottino, fritto o infornato, ripieno di carne, cipolle, pomodorini e spezie tipico di vari paesi del Sudamerica. Dopo neanche mezz’ora iniziano i crampi alla pancia, probabilmente non per l’empanada, ma, forse, per il ceviche, il prelibato piatto di pesce e frutti di mare crudi che avevo gustato la sera prima in una rinomata cheviceria di Cusco. L’agente di viaggio mi aveva consigliato di non mangiare il ceviche la sera bensì a pranzo, quando il pece marinato nel “latte di tigre”, salsa principe del ceviche peruviano, è freschissimo.
Entro bianca come un cencio nell’aeromobile, mi siedo tremante accanto ad una vecchietta che mi guarda terrorizzata e neanche 5 minuti dopo vomito sul sedile davanti al mio. In sedia a rotelle e accompagnata da un medico mi riportano fuori dall’aereo, misurata la pressione, lasciano che vada alla toilette, dove mi “libero” dopo di chè, nonostante le mie accese e colorite proteste, l’areo parte senza di me a bordo. Sotto la mia responsabilità firmata, mi viene però emesso un nuovo biglietto, sempre gratuito, con partenza tre ore dopo. Finalmente, in tarda serata, completamente ristabilita, riesco a raggiungere la mia agognata meta, Trujillo, ultima tappa del mio viaggio in Perù.
La cittadina fu nel 1820 la prima città peruviana a dichiarare l’indipendenza dalla Spagna. Girovagando nel grazioso centro storico, caratterizzato da edifici dai mille colori, giallo ocra e azzurro in particolare, resto colpita dalle delicate inferiate in ferro battuto delle finestre che si aprono sui tanti edifici storici. Percorro la lunga Calle Pizarro, la via dei ristoranti e dei negozi fino a raggiungere una pizzetta pedonale con una fontana progettata da Gustav Eiffel, il grande architetto francese, esperto della progettazione di strutture metalliche, che negli anni’70 e ‘80, lavorò molto in tutto in Sudamerica. Mi soffermo ad ammirare e, in alcuni casi ad acquistare, i prodotti artigianali in mostra sui piccoli stand della Feria Artesanal Trujillo, scatto foto ad un minuscolo e coloratissimo banchetto che espone in bella mostra frutta tropicale in vaschetta o meticolosamente impachettata. La variopinta Trujillo è il punto di partenza per raggiungere il sito di Chan Chan, la più grande città in mattoni crudi del mondo, che raggiungo a bordo di un taxi fornitomi dal mio agente di viaggio.
Capitale del popolo Chimu (900 – 1470), che prima della conquista Inca controllava la costa settentrionale da Lima al confine ecuadoriano, Chan Chan, a soli 5 chilometri da Trujillo, è oggi un vasto agglomerato di mura in adobe dove spiccano fregi zoomorfi, immagini di pesci, onde, uccelli marini, otarie, tutti simboli religiosi Chimu. Decisamente più entusiasmante, anche se molto più faticosa per via dell’altitudine (oltre 3500 metri) e del sole a picco, la visita al villaggio e al soprastante sito di Pisac che raggiungo, sempre in taxi, in occasione della mia lunga permanenza a Cusco. Il tassista invece che attendermi in auto decide di risalire con me il ripido sentiero che porta al belvedere da cui si gode una spettacolare vista sulla valle sottostante e sugli immensi terrazzamenti curvilinei degli Inca. Durante la discesa osserviamo i resti delle opere murarie inca e le pareti rocciose disseminate di cavità, tutto ciò che resta delle tombe da tempo saccheggiate dai tombaroli.
Dopo un ottimo pranzo ristoratore a base di trota grigliata su letto di crema di asparagi, una delle ricette che ho maggiormente apprezzato durante il mio viaggio in Perù, mi dedico alla visita del rinomato mercato artigianale del villaggio di Pisac, un tripudio di colori dove ammiro e, in qualche caso acquisto, meravigliosi prodotti: tovagliette, sciarpe, poncho, cinture, maglioni, scialli, tessuti dalle popolazioni andine, una delle tradizioni più importanti della cultura peruviana. Altrettanto colorato anche il mercato della cittadina coloniale di Chinchero, situato nella Valle Sacra a 3772 metri d’altezza, a pochi chilometri da Cusco che raggiungo in pulmino nell’unica gita di gruppo del viaggio. I miei tempi, tra foto e video, non sono quelli delle escursioni organizzate e se non fosse stato per il giubbotto color arancio fluorescente della guida avrei perso il gruppo non so quante volte. Attardata e sempre di corsa riesco a stento ad intravedere le decine di postazioni a terra del tradizionale mercato in cui decine di artigiani propongono i loro sgargianti tessuti tradizionali. Risaliamo in pulmino per raggiungere gli spettacolari terrazzamenti Inca di Moray percorrendo una strada sterrata immersa in uno splendido paesaggio su cui spiccano lontane cime innevate. Ci affacciamo alla balaustra in legno per ammirare i grandi terrazzamenti circolari o ovali concentrici infossati nel terreno. Un opera strabiliante non solo per l’ampiezza (il più grande misura 220 metri di lunghezza e 35 di profondità) ma anche e soprattutto per l’uso che gli Inca ne facevano. I ricercatori, nel misurare l’escursione termica tra i terrazzamenti più bassi e quelli più alti, hanno ipotizzato che fossero usati come laboratorio agricolo per creare le condizioni più favorevoli alla crescita delle diverse colture.
Pochi chilometri in pulmino e raggiungiamo Salineras la cui vista dall’alto mi lascia letteralmente a bocca aperta. Gli oltre 5000 bacini di sale in cui colori variano dal bianco al rosato, fino alle più varie sfumature del giallo, brillano sotto il sole di alta quota, un’opera straordinaria realizzata dalle comunità pre-incaiche residenti nella Valle Sacra che avevano sviluppato un sistema per deviare nei bacini, attraverso centinaia di stretti canali scavati nel terreno, l’acqua proveniente da una sorgente naturale di acqua calda ad alta concentrazione salina. Da questi antichi bacini rettangolari, larghi circa 3 metri e profondi 30 centimetri, diverse famiglie locali ancora oggi continuano ad estrarre sale con tecniche che sono cambiate poco nel corso dei secoli. Io, come d’altronde tutti i miei compagni di viaggio, acquistiamo nel vicino emporio alcuni sacchetti di sale a cui sono state aggiunte erbe aromatiche o erbe medicinali che i popoli precolombiani usavano per “tagliare” il sale di questo sito unico in Perù e forse nel mondo.
L’ultima tappa della nostra escursione alla Valle Sacra (la vasta area in cui gli Inca costruirono importanti centri cerimoniali e rituali), è Ollantaytambo che ammiro fortunatamente in solitudine, perché il mio gruppo, dopo una visita veloce, sarebbe tornato a Cusco mentre io avrei preso, in serata, il famoso treno diretto ad Aguas Calientes, punto base per l’escursione a Macchu Pichu. Lentamente, avvolta dalle folate di vento che trasportano pulviscolo, mi arrampico sulla ripida scalinata per raggiungere la cima dell’antico sito Inca da cui si gode una vista meravigliosa sulle montagne e sul sottostante e omonimo villaggio con il suo colorissimo mercato.
Gusto una cioccolata calda (i popoli precolombiani furono i primi a coltivare la pianta del cacao) e sono pronta a salire sul famigerato treno per Macchu Pichu, un’emozione che sogno da decenni. Un’ora e mezza di tragitto e raggiungo la cittadina turistica di Aguas Calientes, con le sue decine di ristoranti e hotel per ogni budget. Il mattino dopo, di buon ora, una guida mi viene a prendere in hotel per raggiungere la lunga coda di turisti in attesa dell’autobus navetta che, in venti minuti ci porta all’ingresso del nido d’aquila di Machu Picchu. Giornata tersa, sole brillante e cielo blu, una situazione meteo piuttosto inusuale per l’antica città Inca, mi appresto finalmente ad ammirare dal vivo ciò che ho già visto in decine di video, documentari, foto e immagini di ogni tipo. Percorro il sentiero che conduce fino alla Capanna del custode della roccia funeraria, un posto straordinario dove mi fermo ad ammirare il più famoso sito precolombiano adagiato ai miei piedi in tutto il suo splendore e, alle sue spalle, l’inconfondibile picco dello Huayna Picchu, ricoperto di foreste nebulose. Pur mancando l’effetto sorpresa, l’emozione è grande. Finalmente sono al cospetto della città Inca che non fu mai scoperta dai conquistadores spagnoli del XVI secolo restando dimenticata e indisturbata per quasi quattro secoli fino al 1911, quando lo storico americano Hiram Bingham, alla ricerca di Vilcabamba (l’ultimo rifugio degli Incas prima che il loro impero fosse distrutto dagli spagnoli, scoperto invece nel 1964, Gene Savoy), vi arrivò guidato da uno dei pochi campesinos della valle dell’Urubamba che ne conoscevano l’esistenza.
Proclamato dall’Unesco nel 1983 patrimonio mondiale dell’Umanità, il sito conserva terrazze, templi, vasche cerimoniali e persino un antico osservatorio astronomico in pietra. Il giorno della mia visita a Machu Picchu cade il 28 luglio, festa nazionale del Perù: dall’alto osservo una dozzina di militari srotolare un’enorme bandiera bianco-rossa intonando l’inno composto nel 1821. Prima di lasciare il sito dopo tre e mezza di trekking la guida mi fa notare il Tempio del Condor così chiamato per via di una roccia scolpita a forma di testa di rapace e due altre rocce che ricordano le ali spiegate di un condor. La canzone dedicata a questo uccello l’avevo ascoltata alcuni giorni prima durante la mia permanenza ad Arequipa. Composto nel 1913 e portato alla ribalta mondiale nel 1970 grazie alla versione del duo Simon & Garfunkel, “El condor pasa” ebbe l’onore di essere inserito nel Disco d’Oro caricato sulle sonde Voyager, lanciate verso lo spazio profondo nel 1977 con il compito di rappresentare l’umanità davanti ad eventuali specie extraterrestri. Un duo voce, chitarra e siku (tipico strumento a fiato andino) aveva allietato me ed altri turisti, mentre cenavamo in uno dei tanti ristorantini le cui scenografiche balconate in legno si affacciano su Plaza de Armas, la grande piazza dominata dalla cattedrale cinquecentesca ricostruita in stile neoclassico dopo essere stata distrutta dal terremoto. Ad accogliermi fuori dell’aeroporto di Arequipa, splendida cittadina dove lo stile moresco si sposa all’architettura coloniale, c’è Paolo, il responsabile di Perù Indimenticabile, l’agenzia di viaggio che ha ottimamente supportato il mio viaggio con alcuni servizi.
Nell’accompagnarmi in auto all’hotel sostiamo in un punto panoramico dove è possibile ammirare il cono perfetto del vulcano Misti che domina la città e, casualmente, assistiamo ad un rito tipico del Perù: alcune ragazze che in quel giorno compiono 15 anni, si fanno fotografare in abito da gran sera per festeggiare il loro ingresso nell’età adulta. Costruita in gran parte con il sillar, una roccia vulcanica chiara, Arequipa, viene chiamata la ciudad blanca, la città bianca e risplende sotto il sole d’alta quota. Sono invece rosso scuro e blu cobalto le mura dell’enorme monastero di Santa Catalina, fondato nel 1580 da una ricca vedova che aveva preso i voti. Qui, come mi spiega una guida che con poche soles ingaggio all’ingresso, mi spiega che vivevano fino a 200 suore (oggi una dozzina), in prevalenza secondogenite delle ricche famiglie di origine spagnola che già a dodici anni venivano rinchiuse tra queste mura per vivere, riverite da ancelle, una vita monastica strettamente contemplativa fatta di silenzio, solitudine e preghiera.
Impossibile, invece, visitare il monastero di Santa Teresa, chiuso da mesi per timore del Covid, nonostante l’agente Paolo si fosse prodigato nell’intercedere telefonicamente con l’irremovibile madre superiora. Visito Casa Moral, la residenza coloniale meglio conservata di Arequipa con i suoi mobili intagliati e la chiesa della Compania, uno dei migliori esempi peruviani di churrigueresco, l’intricato barocco latino-americano che tanto avevo apprezzato in Messico, il ben più sobrio il convento di San Francisco ed il famoso museo dove è conservata, oltre a manufatti Inca, la celebre mummia di Juanita, ritrovata nel 1995, una dei bambini inca sacrificati e sepolti sulla cima ghiacciata dell’Ampato. Poco al di fuori dal centro storico, dedico alcune ore alla visita del convento della Recoleta, poco battuto dal turismo di massa, un angolo di tranquillità che vanta due splendidi chiostri in sillar, un museo di manufatti amazzonici, che includono animali della giungla preservati, e una biblioteca con oltre 20.000 libri.
Ancora più spettacolare la città di Cusco, la più antica città del Sudamerica, abitata senza interruzioni fin dal 1200. Costruita dagli Inca e smantellata dagli spagnoli, Q’osqo che nella nativa lingua quechua significa “ombelico del mondo”, conserva tuttora la particolarità di essere in gran parte costruita su antecedenti mura ed edifici inca, come la chiesa e convento di Santo Domingo edificati su Qoricancha, sito un tempo decorato con centinaia di lastre d’argento e oro massicci. Attendo pazientemente in fila per scattare l’iconica foto che immortala la fuga prospettica delle finestre trapezoidali perfettamente allineate in ciascuna delle tre stanze di cui si compone il tempio del Fulmine, del Tuono e dell’Arcobaleno. Immancabile anche la foto (a pagamento) alle indigene in abiti sgargianti e accompagnate da cuccioli di lama o alpaca che stazionano stabilmente fuori dal sito di Qoricancha. Esploro instancabilmente il centro storico ammirando le cinque chiese che si affacciano sull’enorme Plaza de Armas, percorro lo stretto vicolo pedonale di Loreto racchiuso nel più lungo tratto ininterrotto di muro Inca, mi fermo nella colorata plaza Regocijo ad osservare i festeggiamenti matrimoniali allietati da mariachi messicani. Le giornate a Cusco trascorrono veloci tra visite, acquisti di souvenir e degustazioni di piatti tipici, resto abbagliata davanti alla bellezza del cortile del convento della chiesa de La Merced, visito le minuscole celle che un tempo ospitavano le novizie del convento di Santa Catalina, mi arrampico lungo l’irta stradina in restauro che, passando davanti al Palazzo dell’Arcivescovado, conduce al pittoresco quartiere di San Blas con la sua piccola chiesa in adobe, mi perdo tra i banchetti del Mercado Central e nelle vaste sale del Museo Inka che conservano ricche collezione di manufatti Inca.
Ma l’esposizione più bella, che visito su consiglio del mio agente di viaggio è il museo Larco, raggiunto in modo piuttosto rocambolesco durante il lungo scalo a Lima prima di pendere il volo di ritorno per Venezia. Lasciato il bagaglio in aeroporto raggiungo in taxi Larco pagando la corsa con un rifornimento di benzina visto che ho terminato i soldi e l’autista non è fornito di bancomat. Ospitato all’interno di un edificio di epoca coloniale costruito sopra una piramide risalente al VII secolo, Larco è un museo privato di arte precolombiana noto per la più vasta collezione di manufatti d’oro e d’argento e di ceramiche a carattere erotico del Perù. Dopo la visita mi rifocillo al ristorante del museo con il lomo saltado, un piatto a base di manzo, cipolle, peperoni e patate in salsa di soia che rappresenta la fusione dei sapori della cucina peruviana con la cucina cantonese, lascito della vasta comunità cinese tuttora residente in Perù. Il pos del locale non funziona e, alla fine, titolare e cameriere si accontentano, a malincuore, del mio biglietto da visita e della promessa di un bonifico una volta tornata a Venezia.
Il mio viaggio in Perù inizia e termina a Lima, l’immensa capitale ricostruita dopo il devastante terremoto del 1746. Due settimane prima avevo avuto solo il tempo di visitare l’elegante cattedrale dove riposano, in bella vista, i resti del conquistadores spagnolo Francisco Pisarro, la chiesa di San Francisco, una delle più fotografate della città con la sua facciata giallo canarino e le catacombe del limitrofo monastero, utilizzate come cimitero, visto che Lima non ebbe un camposanto fino agli inizi del XIX secolo. In alcune fosse le ossa sono state usate per comporre macabri motivi ornamentali. Ma l’attrazione di Lima che più mi ha colpito è ben più recente. Risale infatti al 2012 la costruzione del Circuito Màgico del Agua, il più grande complesso di fontane del mondo che include uno spettacolo di acqua, laser e luci, una visione magica, che ha fatto da preludio al mio viaggio, altrettanto magico, nella terra degli Inca.
di Claudia Meschini