“All’inizio non riuscivo a distinguere nulla. L’aria calda che usciva dalla camera faceva tremolare la fiammella della candela. Poi, man mano che i miei occhi si abituavano, ogni dettaglio dell’interno della stanza prese ad emergere dalla penombra. Strani animali, statue e oro: ovunque lo scintillio dell’oro”. Howard Carter.
Era il 4 novembre 1922 quando l’egittologo britannico scoprì la tomba perduta di Tutankhamon, trovandola praticamente intatta. Questo è l’unico paragone in grado di rispecchiare la sorpresa, l’emozione che possono aver travolto l’esploratore svizzero Johann Ludwig Burckhardt quando, dopo aver percorso a cavallo uno stretto canyon fra pareti d’arenaria rosata, sbucò in un’ampia conca rocciosa trovandosi, all’improvviso, davanti alla facciata del Khazneh, il monumento meglio conservato di Petra.
Tombe, templi, scalinate, la montagna era tutta scolpita da opere dell’uomo, Burckhardt aveva ritrovato la città dei Nabatei, la mitica “città rosa” del deserto, di cui favoleggiavano antichi racconti crociati.
Lascio indietro il gruppo e le mie tre compagne di viaggio, la mia amica Patrizia e le sue cugine, Paola e Rossella, per percorrere, in solitudine, il Siq, il canyon di circa un chilometro percorso da Burckhardt nel 1812. Quella gola, che un tempo era il letto di un torrente periodico deviato dai Nabatei, viene oggi attraversata da gruppi di turisti a piedi, da carrozzelle a cavallo, in un vociare concitato che toglie poesia e sorpresa alla città rupestre che, prima della scoperta di Burckhardt, era del tutto sconosciuta all’Occidente. Solo le cavità del Siq esterno erano, a quell’epoca, ancora abitate dai pastori beduini, gli eredi dei Nabatei, il popolo che, in epoca preromana, diede vita a un’originalissima civiltà del deserto, fondata sul nomadismo eppure capace di creare una grande capitale, ricca di mausolei e templi scavati nella roccia.
Percorrendo in silenzio il Siq mi soffermo ad osservare le incredibili sfumature dell’arenaria che mineralizzazioni diverse colorano di arancio, rosa, bianco e giallo, creando suggestivi disegni di varie tonalità. All’improvviso raggiungo lo sbocco della gola ritrovandomi ad ammirare uno degli scorci più celebri del Medio Oriente: la sagoma del Khazneh infuocata dal sole che irrompe a sorpresa nell’ombra del budello. Nella cupola centrale del Khazneh, meglio noto come il “Tesoro”, venne nascosto, secondo un’antica leggenda, dell’oro, da qui il suo soprannome; si notano infatti tuttora i segni dei colpi di fucile sparati dai beduini che credevano a questa legenda. Oggi a proteggere le vestigia della città carovaniera ci sono i beduini delle tribù Liyatneh e Bdul, reclutati come guardie, ben riconoscibili, tra le decine di turisti, per i kefiah bianchi e rossi, il copricapo tradizionale della cultura araba e mediorientale. Ritrovo il mio gruppo, guidato da Tarek, un giordano il cui fascino magnetico aveva conquistato gran parte delle donne della comitiva turistica.
Impulsivo, enigmatico, confidenziale ma anche irascibile, Tarek, nei giorni precedenti aveva già fatto scoppiare uno psicodramma (a sfondo erotico) all’interno del nostro “gruppo vacanza”, tanto che alcuni partecipanti al viaggio, dopo essersi lamentati con il tour operator, avevano preferito proseguire il viaggio con un’altra guida. Io, Patrizia e le due cugine eravamo rimaste “fedeli” a Tarek ed è con lui che, con un po’ di titubanza (non ho mai amato i quadrupedi da sella), ci accingiamo a scoprire il Monastero, o Al Deir, palcoscenico del film “Indiana Jones e l’ultima Crociata”, percorrendo a dorso di mulo un erto sentiero di montagna, in parte a gradini, lungo il quale si incontrano vari sepolcri nabatei scavati nella parete. Inquietante, imponente, Al Deir, il tempio realizzato probabilmente dall’ultimo re nabateo Rabel II (76 -106 d.C.), è un capolavoro dell’arte e della tecnica, un blocco monolitico ricavato dalla retrostante parete che lo incornicia in perfetta armonia con l’ambiente. Sempre a dorso di un quadrupede, in questo caso un dromedario, visitiamo quella che fu la città “viva” dei Nabatei estesa più in basso rispetto ai templi ed ai mausolei scavati nella roccia: una valle centrale che, un tempo, ospitava per lo più tende, come è ovvio per una capitale di mercanti nomadi.
Non è invece a dorso di cammello o di dromedario che scopriamo il giorno successivo il Wadi Ramm, bensì a bordo di una comoda jeep. “Una strada per processioni che supera l’immaginazione”: così l’agente segreto, militare, archeologo e scrittore britannico, Thomas Edward Lawrence, meglio noto come Lawrence d’Arabia, definì lo Wadi Ramm, l’imponente deserto di rocce color ocra disseminato da inaspettati cespugli di acacia spinosa o di hammada salicornica, dalla verde chioma piumata.
Caratterizzato da turrite guglie di arenaria e rocce calcaree che, al tramonto, cambiano colore per assumere toni caldi e ambrati, lo spettacolare Wadi Ramm è stato da sempre la via di passaggio da e verso l’Arabia Saudita, il percorso più frequentato per la presenza di sorgenti d’acqua, come è testimoniato da oltre 20.000 incisioni rupestri, appartenenti a diverse epoche, sparse in tutta l’area. Ed è qui che ci fermiamo in un piccolo campo di nomadi a sorseggiare un caffè beduino, servito in piccole tazze di porcellana senza manico. Macinato finissimo, secondo l’eredità lasciata dall’Impero ottomano, il caffè giordano, forte ma dall’aspetto trasparente, viene bollito nell’acqua insieme allo zucchero e aromatizzato con il cardamomo. Sorseggiarlo è un leitmotive del nostro viaggio in Giordania insieme al tè alla menta o alla salvia e al narghillè con cui io e le mie amiche, la sera, dopo le lunghe escursioni, ci rilassiamo fumando tabacco al profumo di mela.
Tra i vari souvenir acquistati durante il viaggio il tabacco profumato è stato forse uno dei più azzeccati, il più inutile invece, avendo solo la doccia e non la vasca da bagno, la confezione di sali del Mar Morto acquistata d’impulso durante la breve escursione sulle sponde dello specchio argenteo del grande lago salato. Mi affascina però pensare che quegli stessi sali siano stati utilizzati fin dall’antichità dai Re di Giudea e dai Romani e, secondo una leggenda anche da Cleopatra, che ne avevano apprezzato le proprietà terapeutiche oggi impiegate con successo su affezioni di origini reumatiche e muscolari, psoriasi e per donare compattezza ed elasticità ai tessuti. Situato in una depressone tettonica che raggiunge i 408 metri sotto il livello del mare, il Mar Morto è un bacino chiuso senza emissari, la cui alta concentrazione di sali (33% di salinità, dieci volte più elevata di quella dell’Oceano), permette, anche a chi non sa nuotare, di galleggiare agevolmente. Osserviamo divertite donne in costume da bagno completamente spalmate da fango scuro.
Purtroppo però, al nostro “gruppo vacanza” non è concesso il tempo per un bagno, rimontiamo quindi sul bus gran turismo per percorrere le alture sopra il Mar Morto, dove, di tanto in tanto si nota qualche fascia di vegetazione lussureggiante, un ruscelletto che brilla al sole o una cortina di felci che spezza l’opacità del paesaggio di rocce sulfuree. Tra queste colline la vita fiorisce grazie alle sorgenti termali: nel sottosuolo ce ne sono circa 60, che emergono in superficie in modo più o meno impetuoso e rumoroso. La più famosa è la sorgente del Wadi Zarqa Ma’in. L’acqua, di temperatura compresa tra 45 e 60°C, scorre lungo il versante del colle formando una serie di cascate e di rivoli meno evidenti, per poi raccogliersi in varie pozze usate come bagni termali. Qui, con invidia, osserviamo un gruppo di bagnanti che si divertono nell’acqua benefica, ricca di potassio, magnesio e calcio. A malincuore risaliamo sul bus che ci porterà ad Amman, la capitale. Fedeli all’uso arabo (che però non è affatto un precetto coranico, come comunemente si crede) di evitare la riproduzione della figura umana, i monumenti giordano-islamici sono privi di statue e affreschi: Amman non fa eccezione. La fantasia degli architetti si sbizzarrisce perciò nell’uso di arabeschi, accostamenti cromatici, giochi di luce. Esempio tipico di questa tendenza è la Moschea di Abu Dervish tutta giocata su effetti bicromatici, che visitiamo durante il nostro breve soggiorno nella capitale. Considerando sconveniente la riproduzione della figura umana, anche le decorazioni delle ceramiche moderne, i disegni dei tappeti e persino la disposizione delle sabbie colorate nelle famose bottigliette-souvenir, tendono, per lo più, a riprodurre artistici motivi ornamentali.
E’ il caso della mia bottiglietta che conservo ancora sulla mensola di una mia libreria. Ci riserva invece una sorpresa il Qasr Amrh, uno dei “castelli nel deserto” che visitiamo durante il tragitto tra Amman e Petra percorrendo l’antica e scenografica Strada dei Re. Le pareti e la volta sono tutte affrescate, e non da arabeschi. Sui muri sono dipinte scene di caccia, di lavoro, di vita privata, alcuni affreschi si spingono a raffigurare donne nude al bagno, un segnale lasciato da corti evolute e liberali, attente all’arte, come furono i califfi Omayyadi. La guida ci racconta un episodio accaduto solo pochi anni prima, quando un ragazzo nello scattare una foto dalla terrazza senza parapetto del Qasr Amrh precipitò giù, morendo sul colpo, io mi limito a farmi scattare una foto ai piedi della fortezza mentre spalanco le braccia mostrando la sciarpa del calcio Venezia che mi sono portata dietro da casa. Quella sera, per scoprire il risultato della partita, giocata nel pomeriggio dalla squadra della città, avrei telefonato più volte ad un mio amico prima di trovarlo (all’epoca il cellulare dovevano ancora inventarlo), spendendo una cifra che qui mi vergogno a riportare.
I “castelli” costruiti dai califfi Omayyad nell’area desertica intorno ad Amman costituiscono la più originale testimonianza dell’antica architettura islamica. Molti furono fatti nel periodo omayyad (633-750 d.C.), quando i califfi arabi stabilirono la capitale del loro impero a Damasco, altri sono invece tipici fortilizi difensivi costruiti in epoca romana da Settimo Severo e da Diocleziano, riutilizzati poi dai califfi stessi che li riadattarono a loro dimora; altri ancora sono del periodo mamelucco.
Questi edifici, che ben si mimetizzano nel paesaggio color ocra, erano case di caccia, fortezze, caravanserragli. Ne visitiamo i meglio conservati tra cui il forte di Azraq dove soggiornò anche Lawrence d’Arabia.
A prescindere dagli affreschi che decorano il “castello” di Qasr Amrh, c’è un altro luogo in Giordania che conserva raffigurazioni umane, in questo caso sotto forma di splendidi mosaici. E’ la cittadina di Madaba, la Ravenna del Medio Oriente, che raggiungiamo in bus dopo una breve sosta sul monte Nebo, dove, secondo la Bibbia, Mosè poté ammirare la Terra Promessa. Ci affacciamo dalla terrazza del sagrato del monastero francescano e la nostra guida Tarek punta l’indice verso l’infinito per mostrarci, al di là della foschia desertica, le città di Betlemme e Gerusalemme, che distano tra loro solo 9 chilometri. Il mio occhio poco allenato in realtà non scorge nulla o quasi, ma si sofferma con piacere sulle acquee blu del ben più vicino Mar Morto. Betlemme, Gerusalemme le immaginiamo invece ammirando la “Mappa della Palestina” conservata nella chiesa di San Giorgio nella cittadina di Madaba.
Il grande mosaico, che consente d’individuare ben 190 località sebbene ci sia arrivato mutilo, costituisce la più antica rappresentazione geografica conosciuta del Medio Oriente. Raffigura, realisticamente e con bei colori, le città e i luoghi più importanti sulla costa mediterranea, mostrando Gerusalemme con la chiesa del Santo Sepolcro, il Mar Morto con i pesci agonizzanti per la salinità, spaziando, poi, a sud fino al delta del Nilo.
Non esiste luogo in Giordania che possa competere in magnificenza con Petra, nonostante ciò Jerash, l’antica colonia romana di Gerasa, che visitiamo all’inizio del nostro viaggio, riesce a conquistarmi grazie all’ottimo stato dei suoi monumenti e al contesto che li accoglie. Jerash, a meno di 50 chilometri dalla capitale Amman, fu uno dei centri più ricchi di divertimenti e più frequentati dai viaggiatori d’epoca romana e bizantina per i suoi teatri, le sue terme, l’ippodromo, i negozi ricchi di stoffe, gioielli e spezie varie. A scoprirla, nell’Ottocento, fu un viaggiatore tedesco di nome Seetzen e, nel 1920, iniziarono gli scavi.
Perla della Decapolis, il complesso di 10 città che fu avamposto dell’Impero romano in Medio Oriente, Jerash ci cattura con i resti delle sue architetture imponenti e molto estese, che ammiriamo risalendo una piccola collina affacciata sul foro, monumento unico per sua forma ovale circondata da 56 colonne. Nella parte opposta al foro visitiamo, alle pendici della collina sacra a Zeus, il Teatro Meridionale, una struttura con 3000 posti a sedere ancora utilizzata per spettacoli all’aperto, in particolare durante il Festival di Jerash che si svolge ogni anno a luglio. Per darci dimostrazione dell’acustica stupefacente del teatro, Tarek si avvicina alla zona del palcoscenico: con nostro grande stupore le sue parole appena sussurrate rimbalzano nell’aria fino alle file più alte delle gradinate. Io e Patrizia ci allontaniamo un po’ dal gruppo per esplorare l’area circostante, i nostri occhi si posano affascinati su una macchia di piccole piante grasse in fiore. Centinaia di delicati fiorellini rosa punteggiano il verde acceso delle piante. Io scatto qualche foto, Patrizia, invece, ne raccoglie una con radici ed un po’ di terra e la infila in un sacchetto di carta. La pianterà in un vaso a casa, souvenir “vivo” del nostro viaggio in Giordania.
di Claudia Meschini