Nel 2000, per le festività natalizie, sono sbarcati a Sharm el Sheik tra i 12 ed i 14 mila italiani, nel 2001 ne sono attesi non più di 2-3 mila. Prenotazioni in calo dell’80 per cento e villaggi chiusi. Sulla pagina di cronaca del Corriere della Sera del 18 dicembre 2001, l’inviato raccoglieva impressioni e commenti dei pochissimi italiani che avevano spavaldamente deciso di trascorrere i primi giorni di dicembre a Sharm el Sheik, nonostante fossero trascorsi poco più di tre mesi dall’attacco alle Torri Gemelle e in Afghanistan, a seguito dell’invasione statunitense, era appena collassato il regime dei Talebani.
Tra quei pochi italiani, in un aereo partito da Venezia con a bordo quasi nessun connazionale ma solo arabi che tornavano al loro Paese, c’eravamo anche io e Gianmarco.
Nel nostro hotel a Sharm el Sheik incontriamo l’inviato del quotidiano che ci intervista. Siamo gli unici italiani presenti nella splendida struttura che si protende sull’acquario del Mar Rosso. Soltanto i Russi, abituè della zona, non hanno rinunciato all’idea di trascorrere le vacanze in un paese musulmano. “Avevamo scelto la Tunisia, ma non c’erano voli e di fronte a 790 mila lire per una settimana, non siamo stati lì a pensarci due volte”, raccontiamo al giornalista. La nostra scelta è comunque premiata da un paesaggio incontaminato, da gustare in tutta tranquillità, da escursioni pressocché in solitaria e dalla gentilezza degli abitanti che, per tutto il nostro soggiorno, hanno cercato di rendere piacevole la vacanza ai pochi turisti presenti.
Dapprima villaggio di pescatori abitato da un centinaio di beduini, poi avamposto strategico occupato dai soldati israeliani durante la Guerra dei Sei Giorni, Sharm el Sheik tornò in mano agli egiziani in seguito agli accordi di Camp David che restituirono il Sinai all’Egitto. Trincee e bunker vennero quindi distrutti e le abitazioni militari modificate per essere adattate a residence turistici. Da quel momento in poi l’ex villaggio di pescatori di 60 anni fa iniziò la sua scalata trasformandosi in una delle località più apprezzate dagli europei per le vacanze al mare fuori stagione, un’alternativa, forse più esotica, delle altrettanto frequentate isole Canarie.
Sharm el Sheik ha indubbiamente un suo fascino tutto particolare: sorta praticamente dal nulla, è stretta fra la massa rocciosa del Sinai alle spalle e l’incredibile blu del Mar Rosso davanti. Tutt’intorno, le dune sabbiose, le rare oasi, i cammelli e le tende dei beduini.
Qui non c’è certo il rischio di annoiarsi: le giornate scorrono veloci tra una gita a bordo della barca con il fondo di vetro per ammirare i pesci colorati che scivolano tranquillamente in un mondo fantastico e le escursione fra le rocce del Sinai, dove panorami mozzafiato ci riportano ai tempi biblici. La costa sabbiosa è popolata di villaggi come Nuweiba e Dahab, già rinomate località negli anni’70. Qui, tra incensi che profumano l’aria, si respira ancora un’atmosfera da “figli dei fiori”; la percepiamo sedendoci a bere un drink seduti sui grandi cuscini multicolore di uno dei tanti caratteristici locali sulla spiaggia i cui tetti sono tuttora costruiti con foglie di palma intrecciata.
La sera, al ritorno dalle nostre escursioni, Sharm el Sheik ci appare altrettanto magica: si accendo tutte le luci, le stradine si animano di quei pochi turisti che nel tardo autunno del 2001 hanno scelto di visitarla, i tavolini fuori dai bar si popolano, si fuma il narghilè, si beve caffè arabo, si gustano gelati italian style e la musica occidentale e araba invade i locali.
La nostra prima escursione in tour di “gruppo” (in realtà siamo due coppie di italiani ed i nostri accompagnatori), è al Ras Mohammed National Park, pochi chilometri fuori Sharm el Sheik. Il Parco, dichiarato area protetta nel 1983, è contraddistinto da una serie di percorsi obbligati che ci portano alla scoperta di angoli incantevoli: insenature nascoste, scorci paesaggistici grandiosi, come quelli offerti dalle montagne i cui colori che sfumano nel rosa ricordano a Marco le Ande argentine. Durante la nostra escursione non avvistiamo animali, se non il falco pescatore e l’elegante airone cinerino, ma la guida ci racconta che qui vivono differenti animali, dalla volpe del deserto alla iena, dalla gazzella all’ibex oltre a due tipi di cicogne, quella bianca e quella nera. Gianmarco si cimenta nello snorkelling che io non riesco ad affrontare perché in dicembre l’acqua è, per i miei gusti, troppo fredda.
Ma Ras Mohammed sarebbe il luogo migliore per scoprire la fauna del reef: più di 150 specie diverse di coralli e oltre mille specie di pesci vivono in queste acque cristalline, tra cui il pericoloso pesce-pietra, a cui le guide suggeriscono di stare alla larga. E’ infatti il pesce più velenoso al mondo e può risultare letale per l’uomo visto che si mimetizza con i fondali sabbiosi fino a scomparire completamente. Dopo un pranzo rifocillante visitiamo l’area delle mangrovie, importante ecosistema delle zone costiere a clima tropicale. Nel Ras Mohammed National Park vi si trovano esempi superbi di mangrovie: crescono in una zona salmastra ed hanno enormi radici pneumatofere, cioè respiratorie, che fuoriescono dall’acqua garantendo il ricambio d’ossigeno.
Non sarà il Grand Canyon dell’Arizona ma anche il canyon colorato del Sinai ha il suo indubbio fascino. Una nuova escursione in fuori strada ci porta a scoprire questa meraviglia della natura lungo una strada che attraversa un suggestivo tratto di rocce calcaree bianchissime.
Ci inoltriamo all’interno del mondo di roccia ammirando le pareti in arenaria su cui scendono cascate di colori generati dall’ossido ferroso e dal manganese: giallo, viola, rosso, magenta, oro. La natura si è divertita a modellare le rocce del canyon sbizzarrendosi oltre che con i colori anche con le forme, creando stretti cunicoli, i cosiddetti “piedi di elefante” e massi tondeggianti, da secoli sospesi tra una parete e l’altra. Uscendo dal canyon raggiungiamo la vetta del monte Ghaziani che, tra crepacci rocciosi e pareti granitiche stratificate, culmina sul magnifico panorama che si affaccia sul golfo di Aqaba e sui monti dell’Arabia Saudita. Il deserto roccioso del Sinai è punteggiato dalle tende, per lo più marroni, dei beduini. Qui spiccano gli smaglianti colori dei vestiti delle donne il cui indispensabile accessorio è il velo. Giovani ed anziane non si fanno fotografare volentieri e, non appena si accorgono dell’obiettivo della mia macchina fotografica, si tirano velocemente sul volto il mantello che portano appoggiato sulla testa.
Ma l’escursione che maggiormente ci entusiasma, nonostante gli oltre 300 chilometri percorsi in jeep, è quella al Monastero di Santa Caterina, il più antico convento cristiano continuativamente abitato. Ancora oggi il monastero appartiene alla Chiesa greco-ortodossa e greci sono per la maggior parte i monaci che vi risiedono. Uno sperduto baluardo della cristianità nello sconfinato mondo dell’Islam. Lungo il percorso ammiriamo le strane formazioni rocciose levigate, scolpite e corrose dal vento del deserto. Situato a 1570 meri d’altezza, in fondo ad una stretta vallata, reso ancora più minuscolo dalle alte montagne che vi incombono, il monastero di Santa Caterina, risalente al VI secolo, ci appare all’improvviso in tutta la sua possente struttura fortificata. Ad ogni angolo delle mura di granito rosso locale che lo circondano sorge una torre mentre il camminamento di guardia corre all’interno. Sulla parete a nord-ovest si può vedere ancora oggi l’antico argano che consentiva sia l’accesso al convento sia l’approvvigionamento del cibo.
Sotto questo “ascensore” si trova la porta d’accesso per i visitatori odierni. La prima impressione, accedendo all’interno del monastero, è quella di entrare in un villaggio medievale: le costruzioni addossate le une alle altre, sono ognuna di forma, stile e proporzione diversa. Piccole corti, scale, ballatoi, stretti corridoi, gallerie a volte e archi a tutto tondo, tetti a punta e tetti piatti, la torre campanaria e il minareto della moschea: tutto sembra essere sorto per caso senza un ordine o un criterio ben preciso.
Eppure il senso di armonia e di spiritualità che ne sprigiona è grande. Vari pozzi provvedono a rifornire di acqua il convento. Il più importante si trova subito a destra dopo l’ingresso, è quello conosciuto come Bir Musa, o il pozzo di Mosè: la tradizione vuole che qui Mosè abbia incontrato le figlie di Jetro, fra cui la maggiore, Sefora, che in seguito divenne sua moglie. Visitiamo i silenziosi interni insieme ad uno sparuto gruppetto di turisti. Oltre alla basilica della Trasfigurazione, che custodisce le reliquie della Santa, si trovano nel monastero venti cappelle consacrate alla Vergine e ai Santi Patroni, usate solo per celebrare le rispettive festività. La cappella più venerata di tutto il monastero è quella del roveto ardente. Vi si accede ancora oggi senza scarpe, così come fece anche Mosè su ordine di Dio, in onore alla santità del luogo: “togliti i calzari, perché la terra che calpesti è sacra” (Esodo 3:5). Qui, come vuole la tradizione, Mosè vide ardere il roveto senza consumarsi, qui si manifestò per la prima volta Dio, nella sua straordinaria potenza.
Ma l’unicità del Monastero di Santa Caterina va ricercato anche altrove, ovvero nei preziosi manoscritti della biblioteca. Qui sono conservati codici e manoscritti che per numero e preziosità formano una collezione seconda per importanza soltanto a quella del Vaticano. Vi sono custoditi oltre seimila fra manoscritti e volumi, la maggior parte in greco e il resto in più di dieci lingue, fra cui arabo, armeno, copto, georgiano, siriaco. Insieme ai codici, il monastero possiede, all’interno della chiesa della Trasfigurazione, la più importante collezione di icone al mondo.
Si tratta di oltre duemila pezzi, la cui datazione oscilla dal V al VII secolo. Numerose sono anche quelle del periodo iconoclasta, quando il monastero di Santa Caterina rimase l’unico luogo sfuggito alla distruzione delle immagini sacre. Soltanto in Tessaglia, nei monasteri sospesi delle Meteore, avrei potuto ammirare icone ortodosse e codici manoscritti altrettanto suggestivi. Meteora in greco significa letteralmente “sospeso in aria” ed è il più importante centro della chiesa ortodossa in Europa, dichiarato Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco dal 1988. E’ stata una delle mete prioritarie del mio viaggio in Grecia, un lungo itinerario che dalle Meteore, appunto, mi ha portato fino alle isole di Santorini e a Rodi. Ma questa è un’altra storia…
di Claudia Meschini