Viaggio tra i monumenti della valle di Katmandu, la giungla di Citwan, la cittadina di Pokhara, ai piedi delle cime innevate dell’Annapurna.
“Un viaggio in Nepal rappresenta un insieme di sensazioni ed esperienze così intenso da non poter lasciare il visitatore indifferente o non arricchito nel suo bagaglio culturale. E’ un piccolo Paese che, pur destinato per posizione geografica a fare da cuscino fra India e Cina, mondi di grande influenza, ha saputo tuttavia mantenere una sua identità di tradizioni e cultura, facilitato, in questo, da lunghi anni di isolamento, da un territorio difficile soprattutto nell’area montana, dalla mancanza di strade che fino a non molto tempo fa impediva anche i collegamenti interni. Oggi questi problemi sono stati quasi superati: le strade ci sono, i sentieri di montagna in gran parte sono attrezzati, l’isolamento è finito. E, nel contempo, ci è stato restituito un piccolo universo pressocchè intatto da secoli, solo sfiorato dalla modernità. Davanti ai nostri occhi si spalancano paesaggi di grande varietà e bellezza, primo fra tutti lo spettacolo delle montagne più alte del mondo, compaiono città ricche di arte e monumenti, grandiosi complessi di culto permeati di profonda e autentica religiosità. Non è, poi, da sottovalutare l’incontro con la gente che, nel mosaico di differenze etniche, offre una gamma interessantissima di usi e costumi diversi”.
Nel leggere questa descrizione del Nepal, tratta da uno scritto del presidente del Touring Club Italiano, Giancarlo Lunati, è facile lasciarsi catturare dal desiderio di conoscere un Paese per fortuna ancora poco battuto da turismo di massa, visitato, anzi, con maggior frequenza in tempi ormai passati, in quel periodo, hippy e psichedelico, a cavallo tra gli anni’60 e ’70, in cui il mitico viaggio in India, e quindi nel vicino Nepal, ha rappresentato, per un’intera generazione di “figli di fiori”, un viaggio verso nuovi mondi e soprattutto un viaggio dentro se stessi, alla ricerca, talvolta un po’ enfatizzata, della “propria anima e del proprio io”.
I “figli dei fiori” oggi non ci sono più e forse è scomparso anche i loro modo di “sentire” e vivere l’esperienza di un viaggio in Nepal, nonostante ciò questo Paese mantiene ancora, nell’atmosfera e nei colori, rimembranze di quei tempi, apparentemente spensierati.
Abbiamo visitato il Nepal ormai qualche anno fa, ma ce ne resta intatto un ricordo intenso e ricco di sfumature, anche grazie alle tante fotografie scattate durante il viaggio, foto di Kathmandu, anzitutto, e della sua celebre valle, i cui monumenti principali, le Durbar Square della capitale e delle cittadine limitrofe, Patan e Bhaktapur, i templi di Boudanath, Pashupatinath, Swayanbhu e Changu Narayan, sono giustamente e a pieno titolo inseriti nella lista dell’Unesco come Patrimoni dell’Umanità.
Riguardiamo quelle foto e tutto torna fresco e presente ai nostri occhi, come fosse ieri… ed è al presente che voglio raccontare di questo viaggio, il mio primo viaggio in Oriente.
Appena giunti nella capitale, Katmandu, ci buttiamo nel traffico caotico della capitale, tra strade invase da una quantità travolgente di macchine, moto, risciò a pedali, pedoni, ciclisti e mucche in passeggiata. Ci addentriamo nei cortile dei bahal, edifici intercomunicanti dove si addensano gli uni sugli altri case con finestre e porte intagliate, minuscoli templi (chayta) che spiccano tra galline, caprette e tra innumerevoli stuoie su cui sono ammonticchiati, in ordine commovente, povere merci in vendita: ravanelli, patate, piccole mele e soprattutto mandaranci. Qui il turista è guardato come una manna dal cielo, persino i bambini, fin dalla più tenera età vengono addestrati a chiamarti “Hello, money !” (ciao, soldi !) e ti fanno sentire come un pacco di dollari ambulante.
Tra i cortili, quello più affascinante è, forse, Katesimbhu, che riproduce, in formato mignon, il grande stupa di Swayambhu (il tempio delle scimmie), e ne sostituisce per anziani e malati la visita rituale. Salendo la ripida scalinata che porta al tempio delle scimmie la prima cosa che io e Marco vediamo sono gli occhi del Buddha sul grande stupa, gli “occhi che tutto vedono” ed il naso a punto interrogativo (in realtà il numero nepalese 1, simbolo dell’unità). Gli occhi del Budda ci guardano, poi, anche da uno degli stupa più grandi del mondo, quello di Boudanath, dove fin dagli anni’60 si è creato un conclave di rifugiati tibetani. Una comunità di tibetani la incontriamo anche al campo di Jawalakal, vicino alla cittadina di Patan, dove i rifugiati sono riusciti a realizzare una fiorente manifatturiera di tappeti tradizionali.
Nel nostro girovagare lungo la valle di Katmandu ci attirano la tranquillità, le stradine lastricate di mattoni rossi, le piazza armoniose di Bhaktapur. Pranziamo sul terrazzo del Nyatapola Caffè, pagoda sconsacrata oggi grazioso locale pubblico, con vista strepitosa sul Nyatapola, pagoda a cinque piani con una scala centrale fiancheggiata da cinque paia di guardiani in pietra zoomorfi.
A Patan, dove il regista Bernardo Bertolucci girò il suo “Piccolo Buddha” ci sorprende il Krishna Mandir, santuario in pietra leggiadro come un gioiello di filigrana. Invano tentiamo, poi, di scoprire la residenza della Kumari di Patan, meno importante di quella di Katmandu ma altrettanto degna di nota. La Kumari, la dea vivente, è una bambina, scelta tra molte, in base a ben 32 qualità fisiche e a dati di coraggio non indifferenti. La dea vive fino all’età puberale in una sorta di reggia-monastero dalla quale può uscire solo in occasione di feste e cerimonie, verso i dodici anni la Kumari torna in famiglia e, in seguito, può sposarsi e avere figli. Fino a pochi decenni fa essere il marito di una Kumari si diceva portasse sfortuna ma oggi sono in molti a voler impalmare una ricca ex dea vivente.
Siamo più fortunati nel soddisfare i nostri desideri di atmosfere magiche e misteriose, visitando l’ombroso (si trova una grotta) tempio di Dashinkali, dove il sabato ed il martedì vengono sacrificati da pellegrini a piedi nudi animali maschi (galli soprattutto) in onore della dea Kalì, temibile dea debellatrice delle forze del male. Altrettanto suggestiva, e un po’ impressionante, la vista dei funerali, con parenti vestiti di bianco in segno di lutto, che si svolgono a Pashupatinath, luogo di culto induista dove vengono cremati cadaveri deposti su lastroni di pietra lambiti dal fiume sacro Bagmati, il Gange del Nepal. A Pashupatinath ci sono anche ostelli per chi è in fin di vita. Morire qui viene, infatti, considerato un mezzo per purificare lo spirito.
Non poteva mancare nella nostro viaggio in Nepal un tour a Pokhara, località turistica sul bel lago Phewa, da cui si gode la miglior vista sulle cime perennemente innevate dell’Annapurna, e soprattutto a Citwan, la giungla tropicale nepalese, ora bonificata dalla malaria.
Dopo un viaggio di 200 km da Katmandu durato ben 7 ore (strade impraticabili e mezze franate a causa delle piogge dello scorso monsone), la nostra jeep giunge ai margini del parco naturale insieme ad una miriade di coloratissimi camion provenienti dall’India. Veniamo bloccati ad un check point militare e “assaliti” da decine di bambini che cercano di venderci mandarini e pannocchie arrostite. Superato il blocco ci aspetta il trasbordo in piroga con tutti i nostri ingombranti bagagli e un caffè’ ristoratore sulla terrazza del nostro lodge immerso nella foresta tropicale, sulle sponde di un fiume abitato da piccoli e, ci assicurano, innocui alligatori. Dai capanni a palafitta, illuminati da torce e lanterne, si può ammirare un cielo stellato sorprendente, che ci fa dimenticare le piccole ed inevitabili scomodità della giungla.
Il mattino dopo, sveglia alle 5.30 per visitare a dorso di elefante (dotato di sedili in legno per quattro persone), la foresta che si risveglia. Non avvistiamo animali quindi la perlustrazione viene ripetuta, a piedi, in tarda mattinata. Il nostro ranger non so se per farci entrare nell’ “atmosfera” o per metterci in guardia sul serio, ci fornisce alcuni consigli “da panico”. Se si incappa in un rinoceronte (animale aggressivo ma quasi cieco), bisogna fuggire a zig zag, urla e movimenti scomposti dovrebbero bastare a mettere in fuga un orso (in casi estremi un pugno sul naso), ma l’incontro non sarebbe comunque auspicabile: attacca al volto e agli occhi. Mai dare, poi, le spalle ad una tigre ma fissarla negli occhi. Dulcis in fundo, il sentiero è umido quindi ci viene consigliato di infilare il bordo dei jeans nei calzettoni per evitare le sanguisughe. A questo punto mi sorge un dubbio: ma che ci faccio qui !? L’entusiasmo degli altri componenti del gruppo, e soprattutto i sorrisetti ironici di Marco, mi fanno però cambiare idea.
La passeggiata, in realtà molto semplice, si rivela piacevole e senza grossi intoppi. Avvistiamo un rinoceronte (con conseguente fuggi fuggi generale a zig zag), ma l’animale non ci degna di uno sguardo e continua a farsi beato gli affari suoi. Quanto a sanguisughe ad un nostro compagno se ne sono attaccate un paio ai calzettoni e nulla più. Pomeriggio soft all’insegna del divertimento giocoso con il classico bagno a dorso di elefante e relativa doccia direttamente dalla proboscide.
Il mattino dopo ci portano al di là del fiume in barchetta dove, dopo aver attraversato una campagna idilliaca, che nel periodo dei monsoni si trasforma in acquitrino, incontriamo alcuni villaggi Tharu, abitati dagli aborigeni del Terai. Tra le loro semplici capanne in paglia, argilla e letame essiccato regna una tranquillità e una pace invidiabili. Osserviamo donne al lavoro che legano fascine di riso, pescatori di ritorno dai corsi d’acqua con ceste gonfie di pesci guizzanti, bambini che vanno a scuola scalzi e sorridenti. Tutto questo movimento, così quotidiano, quasi rituale, ci mostra un modo di vivere votato alla tranquillità e ad un’ innato rispetto per l’ambiente, che noi, così “civili” stiamo forse dimenticando e perdendo.
di Claudia Meschini
foto Gianmarco Maggiolini
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