Tra mercatini multicolore, città coloniali e una natura incontaminata e selvaggia.
Sono in volo per Quito, Ecuador, con i miei compagni di viaggio: Lucia, Enrico (ribattezzato Enrique) e Flavio, veri amici con i quali poter condividere un bagaglio di nuove emozioni da ricordare per il resto della vita.
L’atterraggio a Quito, 2.800 metri sul livello del mare, suscita in noi un po’ di apprensione, poichè l’aeroporto è circondato a brevissima distanza da alcuni tra i sobborghi più poveri della città e, guardando dal finestrino, pare davvero che l’aereo debba inevitabilmente finire sopra i tetti delle povere case.
Dopo un sonno ristoratore siamo pronti a visitare questa graziosa città coloniale, il cui nome in antica lingua inca significa “Valle dei Colibrì”. Passeggiando nel suo centro storico (patrimonio dell’Umanità – Unesco), ci colpiscono, in particolare, la chiesa della Compania, sbalorditivo esempio di arte barocca con all’interno colonne ed altari decorati con lamine d’oro provenienti dai saccheggi dei conquistadores, e la chiesa de La Merced che custodisce singolari tele raffiguranti vulcani in eruzione e scene apocalittiche.
IN VIAGGIO A RITMO DI MUSICA
Saliamo poi su una corriera diretta a Otavalo (un paio d’ore di tragitto). In tutto l’Ecuador il sistema di corriere funziona piuttosto bene. Magari sono vecchie e rumorose, insomma non troppo comode, ma servono abbastanza capillarmente tutte le zone del Paese. E’ un ottimo ed economico metodo per muoversi. Nota caratteristica: il conducente vi farà la “testa come un pallone” a forza di trasmettere musica (e che musica!) per tutto il tempo ! E’ quasi impossibile poi perdere una corsa: non appena vi avvicinate alla stazione delle corriere, decine di giovanotti si prodigano a chiedere dove volete andare, indirizzandovi prontamente alla biglietteria ed alla corriera giusta.
Dopo aver visitato i mercati di Otavalo, tra i più grandi e folkloristici del Paese, saliamo a bordo di un altro bus per trasferirci fino a Cotacachi, dove gli artigiani lavorano la pelle. Cotacachi è la meta che ci eravamo prefissi di raggiungere il 2 novembre per assistere alla Festa dei Morti. Il mattino ci svegliamo presto e, affacciandoci dal balcone vediamo intere famiglie con bambini ed anziani che si incamminano silenziosamente e con dignità verso il cimitero.
Sono i cotacachilenos, indigeni che si riconoscono per i vestiti tradizionali: gli uomini portano i capelli lunghi raccolti in coda di cavallo, pantaloni bianchi al polpaccio, sandali di corda, ponchosblu e cappelli scuri di feltro; le donne indossano camicie ricamate, lunghe gonne nere, scialli e fazzoletti sulla testa, nonché vistosi gioielli, soprattutto collane di numerosi fili di perline dorate di vetro soffiato e braccialetti di perline rosse.
Seguiamo questa moltitudine stranamente sorridente ed entriamo nel loro cimitero. Ciò che si presenta ai nostri occhi è quanto di più emozionante e commovente abbia mai visto: famiglie composte di nonni, padri, madri, ragazzi e ragazze, sedute accanto o intorno alle tombe (semplici tumuli con una croce ed un nome) che mangiano, leggono o parlano con i morti, mentre i bambini felici sgambettano come fossero in un parco giochi. Il tutto avvolto in una atmosfera festaiola, ma nello stesso momento dignitosa e contenuta, un momento indimenticabile che ricorderemo anche grazie alle decine di foto concesse dagli indigeni senza alcun problema.
Il giorno successivo, con auto e autista, ci dirigiamo verso il lago San Pablo, in cui si specchiano l’imponente Volcán Imbabura, 4.609 metri ed il Volcán Cotacachi, 4.939 metri.
Vegetazione fitta, verde intenso, declivi di antichi vulcani coltivati a terrazze, ovunque alberi in fiore o in frutto e montagne a perdita d’occhio, campagne percorse da torrenti, campesinos al lavoro o in cammino con i loro lama. Dopo la gita in barca al lago, colazione in un accogliente ristorante frequentato da gente locale poi in viaggio per la Laguna de Cuicocha, un lago vulcanico a 3.220 metri quadri, che luccica nel sole.
L’INCONTRO CON LA CULTURA INCA
Il nostro viaggio in Ecuador prosegue verso una località magica: Cochasquí, nella provincia del Pichincha. Qui vissero gli indios Quitu-Caras, tra il 950 e il 1550 d.C., prima di essere sopraffatti dagli Incas, pochi anni prima che questi ultimi, ironia della sorte, soccombessero alle armi spagnole. E’ un complesso di 15 piramidi tronche, alcune dotate di rampa, e di una ventina di colline funerarie. Esistono varie teorie circa la funzione di questo sito, la più condivisa è quella che lo considera un luogo cerimoniale-rituale, dato che in una delle piramidi furono ritrovati 556 corpi di indios. Si suppone, poi, anche un uso astronomico di questo sito misterioso. Le piramidi hanno forma trapezoidale, terminante in una rampa orientata da sud a nord. Da sempre, nei solstizi d’estate e d’inverno, gli shamani si riuniscono in questo luogo sacro per benedire gli indigeni locali e il loro raccolto.
Trascorsi i primi giorni comincio a capire un po’ di più il clima di questo paese. Trovandosi sull’equatore dovrebbe essere sempre uguale tutto l’anno e ovunque, ma l’altitudine, la vicinanza del mare o della selva amazzonica cambiano le cose. Sugli altipiani, ad esempio, si vivono le quattro stagioni in un sol giorno. Mattino primaverile, mezzogiorno estivo, pomeriggio di nuvole e vento, verso sera pioggia, e di notte freddo cane! Da 5 a 30 gradi in 24 ore ! Attenti, quindi, a dotarsi di abbigliamento adeguato.
Lasciata Cotacachi, ci trasferiamo ad Ibarra per salire su uno dei treni più pazzi del mondo. L’Autoferro che in realtà non è un treno ma un bus montato sui binari; del treno si riconoscono solo le ruote. Questo mezzo ibrido collega una volta alla settimana Ibarra a San Lorenzo sulla costa. L’Autoferro attraversa paesaggi fantastici tra gole, piantagioni, ponti corrosi dal tempo, precipizi da brivido. Il modo migliore per viaggiare è quello di salire sul tetto del mezzo e fare il percorso accovacciati sulla lamiera, uno a fianco all’altro.
Sulla strada di ritorno a Quito si verifica un evento assolutamente imprevisto: a cento chilometri a nord, in territorio Colombiano, esplode il vulcano Reventador riversando la sua cenere ed i suoi fumi sull’Ecuador del Nord fino a Quito. Tutte le strade sono coperte di una coltre di cenere finissima come il borotalco, si viaggia quindi in macchina e non si possono aprire né bocchette né finestrini. La gente indossa le mascherine per i fumi e utilizza l’ombrello per proteggersi dalla cenere. Tale situazione ci preoccupa non poco e decidiamo immediatamente di spostarci verso sud, non senza aver prima fatto visita alla Mitad del Mundoovvero alla latitudine “0”, dove storicamente per la prima volta è stato rilevato il punto geografico corrispondente all’equatore.
Raggiungiamo in autobus Banos, ai piedi dell’eruttivo e maestoso vulcano Tungurahua, cittadina nota per l”Agua Santa”, le terme di acqua calda. La sua invidiabile posizione ne fa un’ottima base per le escursioni nella selva amazzonica. Il centro è carino, animato da ottimi ristorantini e negozi di artigianato locale, come la lavorazione dello zucchero caramellato. In serata ci mettiamo in contatto con una cooperativa di ragazzi guidati da Sebastian Moja, un indio quichuas della regione amazzonica. Ci accordiamo per un giro di cinque giorni nella selva in fuori strada.
NELLA SELVA AMAZZONICA
Arrivati a Puyo, cittadina situata all’inizio della selva amazzonica, visitiamo una comunità composta da sole due famiglie indigene. Vivendo al limite della foresta, questi autoctoni sono abituati al passaggio dei gringos, anzi ne traggono spesso un vantaggio economico che integra la loro povera economia fatta da un po’ di agricoltura, un po’ di caccia e pesca. Gentilmente ci mettono a disposizione una capanna dove scarichiamo gli zaini, dopo di chè ci dipingono il viso con disegni propiziatori. Indossati gli stivali possiamo ora inoltrarci nella foresta accompagnati dalla nostra guida, Leo, giovane laureato in biologia, specializzato in piante amazzoniche.
Il primo impatto psicologico con la foresta è di pura meraviglia: tra i grandi alberi, che possono raggiungere i 50 metri di altezza ed il suolo, si sovrappongono strati di vegetazione composti da felci e da numerose specie di orchidee. Le liane si appoggiano agli alberi, crescono fino a raggiungere le altezze dei grandi alberi, naturalmente la quantità di luce che raggiunge il suolo e talmente ridotta che lo strato erbaceo è inesistente. Leo apre il sentiero a colpi di machete, mi chiedo come faccia ad orientarsi, la pioggia ci costringe a camminare nel fango, bisogna stare attenti a dove si mettono i piedi altrimenti rischi di lasciarci dentro gli stivali !
La maestosità della selva sovrastante ci dà l’impressione di essere come formiche in fila in “missione esploratrice”. Durante il percorso Leo dà sfoggio di notevoli conoscenze naturalisco-botaniche, indicandoci le varie piante medicinali utilizzate dagli indigeni come il “sangue del drago”, resina che viene spalmata sopra le ferite da taglio per una rapida cicatrizzazione, o altre piante usate come antiparassitario o come disinfettante, e poi ancora, le foglie per estrarre il dentifricio o un sapone per lavarsi i capelli.
Selva, selva e ancora selva. Piante di tutti i tipi. In Ecuador sono presenti più di 20.000 specie di piante, considerando solo quelle catalogate. Emozionante l’incontro con un velenosissimo serpente corallo, rettile di piccole dimensioni, dalla pelle vivacemente colorata.
Il cammino è stato pesante, più per il terreno più che per la pendenza. Con gli stivali di gomma abbiamo guadato fiumi e lottato contro il fango che ostacolava il nostro cammino. E’ ora di cena ed abbiamo una gran fame ! Leo e il suo aiutante cucinano per noi i locros, zuppe gustose di verdure, patate e riso che preparano in pochi minuti con maestria in pentole bruciate dalle frequenti cotture su fuoco diretto. Beviamo tè e naranjillas, spremuta di frutta tropicale, assaggiando tortillas di grano e marmellata.
Il lavoro di questa gente è encomiabile e sono sempre più soddisfatto di avere scelto di viaggiare in questo modo: turismo responsabile, lo chiamano, o anche, ecoturismo. Non credevo che avrei trovato qui tanta cura per la natura! Del resto, come si farebbe a non averne. Ovunque io guardi c’è una concentrazione di specie diverse che fanno girare la testa: alberi, liane, orchidee e fiori dall’aspetto fiabesco, ma dietro cui si celano anche interessi economici miliardari. La nostra guida ci spiega dell’ayahuasca, una liana che cresce nella foresta Amazzonica, pianta sacra per gli indios Ecuadoreni. Bollendone la corteccia si ottiene una bevanda con poteri allucinogeni, usata dagli sciamani per viaggiare nell’aldilà. Questa pianta è stata brevettata da una multinazionale statunitense che la sfrutta per puro interesse economico a discapito delle popolazioni locali.
Prima di lasciare l’Ecuador ci concediamo un’altra esperienza magica, la scalata del Cotopaxi, 6.500 metri, la dimora degli dei Incas. Raggiunto il rifugio a 5.200 metri, è possibile proseguire il cammino anche in piena notte fino alla vetta del vulcano, giusto in tempo per godersi un’alba spettacolare. Un’esperienza magica.
Da Latacunga, ai piedi del Cotopaxi, raggiungiamo quindi in corriera (60 chilometri circa) Zumbawa, dove il sabato si svolge un mercato molto tipico, assolutamente destinato ad usi locali e non alla vendita di souvenir. Nessun altro “viso pallido” oltre ai nostri ! Da lì consiglio l’escursione sino al cratere del Quilotoa (3.900 metri). Il panorama che si gode dalla cresta di questo vulcano spento è magnifico. Scendiamo fino alla base del cratere e Flavio, uno dei miei tre compagni d’avventura, ha il coraggio d’immergersi nelle acque gelide del lago turchese che riluce sul fondo del vulcano. Risaliamo tutti con il fiatone ad eccezione di Lucia che, non credendo nelle proprie forze, ha preferito affidarsi ad un asinello. Vergogna!
foto Marino Bressan