Rovigno, un piccolo gioiello incastonato nella corona del mare istriano
Di una cosa puoi esser certo quando apri gli scuri la mattina: il cielo sarà azzurro, intenso e fresco come i panni appena stesi. Il vento, leggero, mai troppo invadente, pur facendo sentire la sua presenza, muove quell’azzurro che diventa meno monotono e un poco più vivace. Gli fa da contro altare un rosso intenso della terra, secca, che richiama i campi da tennis (che sia la stessa?) e le sterpaglie che la popolano. Poi roccia, bianca e dura (qui non è più Carso), che si adagia e si piega, quasi a scusarsi dell’esser così dura, scomoda. Terra d’Istria insomma, quella regione al di là di Trieste, cara al Vate D’Annunzio, che non si sbagliava in fatto di bellezza.
Se ne intendeva di bellezza l’abruzzese, dalla Duse al Lago di Garda, dalla Versilia all’Istria, dalla Figlia di Iorio all’Alcyone. Ne sapeva di bellezza il Vate, la confuse solo in Nietzsche, non cogliendo la bellezza di quell’UberMansh (oltre uomo) che declinò in volgare “SuperUomo” carico di estetismo.
Ci si può abbagliare d’altronde, quando si vive nella bellezza e per la bellezza. Non sbagliò con l’Istria (l’occhio era ancora buono, era di la da venire il suo ‘notturno’). Italiana per tradizione, slava per volti e usi, ibrida per cucina, Jugoslava per risentimento e rancore, terra di confine con una forte identità, anche in questo particolare, come l’Alto Adige, là ove di solito il confine segna ciò che si può superare e, per sua definizione, è dunque misto di identità. Quella terra rossa, invece, richiama alla memoria una rabbia violenta, causata dall’auto-affermazione di varie identità, che sconvolse quelle terre per circa un decennio, dopo che il cappello del maresciallo Tito (fotografato in un rivista con l’onnipresente partenopea Sofia Loren, che non perdeva occasione per mettersi in mostra con tutti i vari dittatori che la invitavano a corte, la bella italiana, simbolo del nostro Paese, ma che da anni però vive all’estero) era stato sollevato e i capelli, come accade ad ognuno di noi, erano impazziti e, elettrificati, avevano intrapreso strade diverse e direzioni contrarie, molto ostinate e poco edificanti.
Furono anni duri, come quei volti, come quelle rocce e quell’arsura che ci accoglie al di la del confine. Già, perché tutto questo è avvenuto subito al di la del confine, del nostro confine, non dimentichiamolo…
Oggi sono i volti, secchi e duri, degli autoctoni che ce lo ricordano, non certo qui in Istria, dove i segni della guerra, che sono scomparsi, erano pochi a ben vedere. Oggi c’è una new Rimini, una piccola Italia stile anni ’50, quella del boom economico, quella della Topolino e delle prime 500, quella che si andava al mare in famiglia, quella delle prime ribellioni: il costume che lasciava intravedere un poco di spalla e un poco di coscia. Oggi qui il nudismo è tollerato (chiamato naturismo, o zona riservata ai naturalisti, ma serve una tessera perché il nostro desiderio maschile spesso, evidentemente, non si sa trattenere), il topless è quasi la normalità. Fatto strano: entrambi gli usi sono ad appannaggio di persone che hanno dai 50 anni in su. Fa un po’ eccezione il topless, ma sempre un poco guardingo, praticato da giovani donne.
I maschietti, invece, le loro virtù meno apparenti le tengono ben celate o amplificate da costumi, griffati, ben aderenti, ma il nudo no. Fa pensare. Quella generazione, mi riferisco ai 50enni, su su a salire, ha vissuto un poco di vera ribellione e di vera rivoluzione sessuale. Noi viviamo il degrado della sessualità, la sua virtualizzazione, la sua performance pornografica, di conseguenza falsa, come tutto il cinema. Ecco che ci si risente giovani, si riaccende un poco di quel peace & love di quasi cinquant’anni fa… un poco del sogno che ci porto (forse? chissà…) sulla Luna o nel fango di una cascina ad ascoltare il rock n’ roll.
Ha ragione Vittorio Zucconi, su Repubblica del 17 agosto: “Stanno andando tutti in pensione, se ancora hanno una pensione, quei ragazzi e quelle ragazze che si sono viste nei documentari nostalgici sulla “festa della pace e dell’ amore”, che forse ha prodotto amore, ma certamente non pace. E’ più facile trovarli nelle case per anziani in Florida a giocare a Bingo, o nei consigli di amministrazione di grandi aziende dove siedono i soli che a Woodstock dicono di non essere mai andati, anche se magari sono tra i pochi che ci furono davvero: almeno 250 di quei corpi inzuppati sono entrati successivamente nei board di corporation e banche, e forse ora capiamo il perché di qualche crack. A Washington, sul soglio massimo del potere, siede un uomo che incarna, senza la supponenza bigotta di Bush, tutto ciò che Woodstock avrebbe voluto frantumare, il perbenismo famigliare, la fedeltà coniugale, la paternità new age con pari responsabilità nell’educazione dei figli, la breve e presto abbandonata esperienza con lo spinello, lasciato cadere per più nobili imprese. Barack Obama è il campione della “post Woodstock generation”, che senza Woodstock, le estati dell’ amore, le ribellioni effimere, ma sincere, non sarebbe mai arrivata al potere. Per cambiare dal di dentro, non dal di fuori, la società. E che, come tutte le generazioni, soprattutto in America, crede di poter reinventare ogni cosa da capo, da sé stessa, ignorando di essere figlia anche di coloro che pensano di poter chiudere nel tabernacolo vuoto del mito e dei tristi musei del tempo perduto. Come Woodstock.
Rovigno è un piccolo gioiello incastonato nella corona del mare istriano (faccio l’occhiolino a Gothe). Una piccola collina fatta di case, strade, pietre, scorci di mare e gatti. Tanti. Ovunque. Meticci. Duri e austeri, come tutta l’Istria. Girano di notte o son fermi nei vicoli, dormono nei cartoni dello sporco, si azzuffano, ti guardano, non si lasciano toccare. Te ne danno l’illusione, ma appena arrivi a quel tanto utile per toccarli, si spostano. Non mi avrai, sembrano dirti quando si girano, mi avevi e mi hai lasciato andar via, potevi sforzarti un poco e mi avresti preso. Sembra che anche loro ci ricordino il passato di cui si diceva.
Rovigno è una chiesa, la Cattedrale di SS. Giorgio ed Eufemia, che domina la città, che guarda al mare e che taglia in due il rosso tramonto di ogni sera. I primi documenti che parlano della chiesa maggiore di Rovigno, dedicata a S. Giorgio primo patrono della città, risalgono all’800, anno del leggendario e miracoloso approdo dell’arca contenente le spoglie di S. Eufemia di Calcedonia, martirizzata nel 284. In questo primo tempo era una chiesa modesta e quindi i rovignesi pensarono di costruirne uno nuova in cui collocare adeguatamente il sarcofago romano con la preziosa reliquia. Oggi è lì bella bianca circondata da ritagliatori di profili che ti inseguono e cominciano a tagliare, su un rettangolo di carta lucida, il tuo profilo avvicinandoti con un esperanto fatto di italiano, croato e inglese di fortuna. La devi un poco sudare quella chiesa: è in cima alla città e ci si arriva per scale e dedali di vie ripide e scivolose. Le strade, infatti, sono di marmo lucido e liscio. Forse fuor di stagione estiva ci si arriva comodi, d’estate, con sandali, infradito e ciabatte è una bella impresa. A pensarci bene forse si voleva difenderla da noi turisti, chissà… Resta il fatto che è bello perdersi nei vicoli, nelle vie che di notte sono scure, silenziose (se non si trovano italiani, cosa rara ma possibile) e illuminate di un giallo che tende all’arancione; di giorno popolate e con mille anfratti trasformati in bar, negozi, atelier, piccoli laboratori di vario artigianato.
In molti casi “batària” come si dice dalle mie parti per indicare le cianfrusaglie per turisti: i porta-gioie di conchiglia, le sfere con la neve, cartoline con culi e tette che fanno da contorno al mare, penne con la cartina di Rovigno, bigiotteria a go go, grembiuli da cucina con la cartina dell’Istria, maglie con l’effige del Che e di Tito, tarocchi di Kakà, Totti, Maldini, Ronaldo. Non manca più nessuno insomma… Comunque è davvero un gioiello che val bene un passaggio, anche due, anche con il caldo.
Il porto circonda la città vecchia, che è la punta di un triangolo che da un lato ha un porto per barche gradi e dall’altro un porto per piccole imbarcazioni e navi da escursioni. Sul porto, alla sera, si trovano giovani che fanno tatuaggi rimovibili, spray artisti (quelli con le bombolette che fanno piramidi, soli fantascientifici e cascate fantasy) e, cosa simpatica, persone con telescopi più o meno potenti che ti fanno vedere, per meno di un euro, i pianeti. Una buona idea, simpatica, meglio del solito ciarpame di falsi d’autore e maialini che si muovo sincopati e fanno grunf grunf ogni due minuti.
Ci resta il mare da raccontare in questo flusso di emozioni che sto scrivendo. Verde, ma non basta… azzurro chiaro (ma forse non così azzurro come in altri Paesi), ma non basta… blu, ma non basta. Direi un mix di questi tre colori con l’aggiunta del fresco, che non so se sia un colore, però lo si potrebbe chiedere a Michelangelo che lo sapeva aggiungere alle sue tonalità. Io non faccio l’artista, cerco solo le parole per descrivere un mare pulito, limpido, fresco e rilassante. Rocce e sabbia, fatta da piccoli sassolini comunque, e pini marittimi che si piegano a fare ombra. Spiagge selvagge, come la natura, che un poco però viene mitigata da un leggero intervento dell’uomo. Un bel mare, a mio avviso. Ce ne sono certo di migliori, ma l’erba del vicino è sempre più verde, si sa… e se il vicino di casa è il Re ci si trova pure l’erba voglio.
È stata una bella vacanza, un bel relax, vissuto bene in luoghi accoglienti che vi consiglio. Da bravo italiano non posso che chiudere sulla cucina. Carne e pesce. Si badi bene che non ho detto ne carne ne pesce, ma carne e pesce, a volontà, con sapori e condimenti mediterranei. Non mangerete mele e scampi, miele e orata, panna cotta e costine, ma degli ottimi arrosti, perché qui è terra di caldo secco, non di umido e nebbia per pentoloni di bolliti e brodi, e pesce in ogni modo con poche salse e buon olio. Vino pastoso, forte, si sente il sole, dentro e fuori.
di Luca Cremonesi